Ambiente, sviluppo e conflitti: come uscirne?

di Paolo Marcesini

18/12/2020

Carlo e Massimo Vaccari

I numeri del fenomeno Nimby sono impressionanti. In Italia sono centinaia gli impianti e le infrastrutture contestate a livello territoriale. Il Nimby (Not In My Back Yard) ha assunto nel tempo dimensioni sempre più importanti ed è andato sempre più ingrandendosi e trasformandosi. 
Ne parliamo con
Massimo Vaccari che, con il fratello Carlo, ha creato un modello di discarica, La Filippa di Cairo Montenotte, seguendo i principi di sostenibilità ed economia circolare della responsabilità sociale d’impresa, all’insegna della coesione con il territorio e la comunità che lo abita. Un modello industriale vincente che, alla fine di un lungo percorso, ha messo d’accordo tutti all’interno di un paradigma e di un ecosistema virtuoso da seguire e, perché no, imitare e prendere da esempio.

Massimo Vaccari, il fenomeno Nimby è in continua evoluzione. Oggi ai comitati locali di cittadini contrari a un’opera nel loro giardino sono andati ad aggiungersi anche gli enti pubblici e la politica (forti rispettivamente del 26,3% e 25,4% delle contestazioni) che non si sentono più capaci di rispondere proattivamente alle preoccupazioni dei propri elettori: da Nimby a Nimto dunque, Not in my terms of office, ovvero non durante il mio mandato elettorale. Eppure l’Italia ha bisogno di impianti e infrastrutture. La loro mancanza inevitabilmente rallenta lo sviluppo economico e produttivo. Quali sono le ragioni?

Le cause sono da ricercare nell’epoca del dissenso in cui ormai siamo immersi. Attorno alla mancanza di fiducia nei confronti dei decisori pubblici e di tutto quanto è istituzionale (politica, imprese, enti terzi), si è creato un nefasto circolo vizioso dove diventa assai complicato distinguere tra progetti che contribuiscono allo sviluppo sostenibile del Paese e quelle operazioni che effettivamente mettono a rischio la tutela dell’ambiente. Viviamo in un vero e proprio paradosso dove qualsiasi opera o infrastruttura è vista come una minaccia e quasi mai come un'opportunità. A mancare sono i fondamentali: certezza delle regole e comunicazione trasparente.
È, innanzitutto, nella fase iniziale dei progetti che si creano le condizioni del conflitto, in quanto il decisore pubblico è spesso incerto e preoccupato nell’affrontare l’iter amministrativo e autorizzativo, così come la volontà politica appare eccessivamente timida e contraddittoria. E la comunicazione va di pari passo: rimane vaga e ipotetica e quasi sempre manca un piano di comunicazione dettagliato che veda pubblico e privato uniti nella condivisione delle regole d’ingaggio. E questo accade anche quando imprenditori che vogliono contribuire a un futuro più sostenibile sono disposti a investire in comunicazione e a impegnarsi in dialogo e confronto; perché, anche quando il proponente è un soggetto serio, affidabile e responsabile, se all’appello del tavolo mancano un interlocutore disponibile al confronto costruttivo e un garante delle regole, il conflitto diventa inevitabile e, così, si bruciano tempo e risorse e si rallenta, lo sviluppo sostenibile di cui il Paese – ora più che mai – ha bisogno.

Avere a che fare con cittadini informati rappresenta quindi sempre un confronto utile per gli imprenditori che realizzano opere necessarie anche alla comunità? In altre parole, chi conosce bene il proprio territorio desidera organizzarsi e partecipare attivamente al suo sviluppo e disegno strategico, soprattutto se il progetto di insediamento produttivo proposto ha delle ricadute ambientali, interviene sui beni comuni ed è potenzialmente pericoloso per la salute. Dov’è il punto di equilibrio tra qualità della vita e della comunità territoriale e l'economia dei processi produttivi? Come si può passare dal conflitto al confronto?

Circa la prima domanda sui processi produttivi e la qualità della vita, più che di punto d’equilibrio parlerei di sostenibilità. La sostenibilità deve essere il vero obiettivo dell’impresa. Intesa, però, non solo come sostenibilità economica: seppur indispensabile per la vita dell'impresa, deve essere integrata dalla sostenibilità ambientale e sociale.
E su questi temi, per passare dal conflitto al confronto, occorre anticipare i tempi della condivisione e della partecipazione. E riscoprire il valore della fatica comunicativa e della responsabilizzazione.
Spesso, invece, si preferiscono le “scorciatoie” in quanto rassicuranti nell’immediato: anziché affrontare la complessità dei progetti e delle loro implicazioni sociali e ambientali, si tenta di forzare la mano per arrivare in fretta all’autorizzazione formale. Così facendo, non si fa altro che lasciare eccessivi spazi di manovra alle strumentalizzazioni e alle mistificazioni, spesso fondate più sul gioco delle parti che non sul merito del progetto. E la strada diventa tutta in salita. Al contrario, chi ha la responsabilità delle scelte, dovrebbe riscoprire tanto la cultura dell’ascolto quanto quella della responsabilizzazione dei cittadini. Ma a tal proposito dovremmo tutti ricordarci la frase scritta da Aldo Moro nel 1978, poco prima del suo rapimento, che indicava come si sarebbe rivelata effimera la stagione dei diritti senza far rinascere nel Paese il senso del dovere. Quindi, in conclusione, sono persuaso che, per passare dal conflitto al confronto e uscire dalla palude della politica del “contro”, che tiene il paese al palo, sia necessario rilanciare la fase del “per” ripartendo proprio dal senso del dovere. Quando parliamo di sviluppo, cioè di nuove opere e nuovi progetti, la responsabilità deve ritornare ad essere il comune denominatore dei differenti ruoli in gioco: comunità, politica e impresa. E proprio nel mio ruolo, dico che chi vuole creare vero sviluppo sostenibile e generare valore condiviso, non chiede e non vuole alcuno sconto né sull’assunzione di responsabilità, né tantomeno sul rilascio di garanzie. E non ditemi che non è vero perché allora non state parlando di imprenditori ma di “prenditori” e questi è facili stanarli. Come? Pretendendo, appunto, trasparenza, impegni e garanzie, in cambio di regole chiare e certezza del diritto.
 

Veniamo alla Filippa. In che modo è riuscito a convincere la sua comunità che una discarica poteva rappresentare un bene per tutto il territorio?

Le potrà sembrare un paradosso, ma devo onestamente affermare che abbiamo ottenuto consenso e convincimento solo perché abbiamo deciso di usare la forza. Intendo dire la forza del diritto, accompagnata, come deve sempre essere, dalla consapevolezza del dovere e dall’assunzione di responsabilità. E la responsabilità d’impresa noi l’abbiamo sempre tradotta ed esercitata nella totale disponibilità all’ascolto, nella continua ricerca di dialogo e mettendo in campo azioni concrete per dare risposte e fornire garanzie. Sempre e comunque, anche di fronte ai muri del no.
Ora le spiego come e perché.
La storia de La Filippa è stata caratterizzata da due fasi. La prima è iniziata nel 2000 ed è terminata 8 anni dopo, con l’inizio dell’attività. Era il periodo dell’istruttoria per la valutazione del progetto e, guarda caso, del rifiuto a prescindere, della negazione di ogni forma di ascolto e di dialogo e di una contestazione molto forte. In quegli 8 anni, tra elezioni amministrative, politiche ed europee, si sono scontate 6 campagne elettorali. Ricordo che mi sentii dire da un esponente politico locale che un imprenditore doveva mettersi in testa che progetti così sensibili e osteggiati non potevano essere approvati che dai tribunali, perché la politica non poteva reggerli. E così è stato. Il sito era idoneo, il progetto era tecnicamente ineccepibile, ma è stato prima bocciato e poi approvato, ma solo dopo una sentenza del Consiglio di Stato. E la prima autorizzazione è stata nuovamente impugnata in giudizio non solo dai comitati del no e dalle principali associazioni ambientaliste, ma anche da tutte le pubbliche amministrazioni.
A nulla erano valse le nostre dichiarazioni d’intenti, i nostri impegni pubblici e la nostra continua attività di comunicazione e di disponibilità al dialogo e al confronto.
Quando affermavamo che il nostro progetto non era quello di cui si parlava, che era un'altra cosa perché nulla aveva a che vedere con l’idea di una discarica inquinante e impattante, quando sostenevamo che noi, con il nostro impianto di smaltimento di rifiuti innovativo e sostenibile, avremmo riqualificato l’area e generato valore non solo ambientale ma anche economico e sociale, ci prendevano chi per matti, chi per millantatori. Non ci siamo fatti mancare proprio nulla: oltre 1300 articoli di stampa, le attenzioni di Striscia la Notizia, petizioni, raccolte di firme, manifestazioni, interrogazioni istituzionali, di cui una approdata anche in Parlamento. Per non parlare delle pressioni e delle minacce.
Mio fratello e io con i nostri collaboratori, di cui non ci è mai mancato l’appoggio, eravamo soli contro tutti, quindi non avevamo proprio convinto nessuno.

Cosa è successo a questo punto?

Noi credevamo nel nostro progetto e nella possibilità di dimostrarne la validità e la sostenibilità anche per il territorio e la comunità locale e così, sostenuti anche dai nostri valori d’impresa e dalle responsabilità nei confronti dei nostri dipendenti, abbiamo continuato a investire nel progetto ingenti risorse economiche ed energie e non abbiamo mollato.
A ogni critica, a ogni insinuazione, anche a quelle più fantasiose e non supportate da prove, abbiamo sempre risposto, anche se la legge non lo richiedeva, con approfondimenti tecnici, studi specialistici, sondaggi, simulazioni e pareri pro veritate, avvalendoci sempre di professionalità qualificate e accreditate. I tempi di realizzazione della nostra iniziativa non sono stati mai considerati la priorità. La regola è stata invece quella di farci carico di ogni dubbio, di ogni preoccupazione, fornendo non solo informazioni e risposte ma ricercando soluzioni migliorative, disposti anche a modificare il progetto non tanto per migliorarlo tecnicamente (perché a questo ci avevamo pensato prima di presentarlo), ma per coerenza con la nostra mission e la nostra scelta di fondo di creare valore.
Questa fase è terminata con l’ultima di ben 43 sentenze dei tribunali amministrativi che ha reso possibile l’inizio dell’attività.
Era il 6 marzo del 2008: l’inizio della seconda fase. Dopo l’esercizio del diritto, quello della responsabilità e del dovere di mantenere promesse e impegni.
La gestione è trasparente e certificata, l’area dell’impianto e l’intera Valle con i continui investimenti green, hanno acquistato valore ambientale e attrattivo, sono frequentate da famiglie di residenti e da turisti e hanno registrato uno sviluppo residenziale e di attività ricettive.
Insomma, dopo una faticosa semina, è arrivato finalmente il buon raccolto, la gente si è convinta, abbiamo ottenuto consenso e, insieme, generato valore condiviso.
 

La discarica, grazie all’innovazione, all’attenzione per la sostenibilità non solo ambientale ma anche sociale ed economica e alle nuove possibilità offerte dall’Economia Circolare, può rappresentare il paradigma per affermare che dal fenomeno Nimby che nega l’insediamento si può passare al fenomeno Pimby che lo accetta e desidera?

Assolutamente sì! Il passaggio da Nimby a Pimby, cioè da rifiuto a desiderio, si fonda su tre elementi che coinvolgono direttamente sia l’impresa che realizza e gestisce l’impianto sia la comunità che lo ospita: la consapevolezza, la scelta responsabile e la condivisione di valore.
La consapevolezza della necessità di superare il modello di economia lineare. Quello in cui ogni bene di consumo passa dalla culla (ambiente naturale/materie prime) alla tomba (rifiuto/discarica di vecchia generazione), generando consumo e spreco di risorse e impatti ambientali non più sostenibili.
La discarica di nuova concezione non ha nulla a che vedere con quelle del passato. Un tempo rappresentava un problema, oggi è un pezzo della soluzione e qui entra in gioco la scelta. Quella di contribuire alla realizzazione di un sistema di gestione dei rifiuti basato invece sui principi dell’economia circolare e sulle “4 R”, consapevoli che dopo la Riduzione dei rifiuti, per conseguirne il Riutilizzo, il Riciclo e il Recupero, il sistema deve disporre di soluzioni per lo smaltimento delle frazioni che residuano da tali attività. E un impianto di smaltimento ben progettato e ben gestito genera risorse che possono essere redistribuite sotto diverse forme: la riqualificazione di aree, l’introduzione di elementi di attrattività di un territorio, il finanziamento e la realizzazione di iniziative e progetti di pubblico interesse. Il valore condiviso è tangibile e misurabile.

In questo contesto, quale ruolo attivo può avere la comunicazione?

La comunicazione può avere un ruolo attivo se e soltanto se viene applicata ricordandosi il suo significato originale di “messa in comune”. Con questo intendo dire che, per incidere davvero sulla qualità dei progetti e dei processi, è fondamentale accogliere i punti di vista diversi e, soprattutto, essere consapevoli che i temi legati all’ambiente sono strettamente connessi con una serie di valori quali l’etica, la sicurezza, la salute. Ed è per questo che la comunicazione non si può limitare a “fare sapere” ma deve, appunto “mettere in comune” interessi e punti di vista diversi, che in molti casi possono apparire contrastanti.
La comunicazione, insomma, deve svolgere il suo ruolo di facilitazione in modo da anticipare il più possibile le domande, accorciare le distanze e alimentare un dibattito fondato sulla trasparenza e sulla chiarezza delle regole d’ingaggio. E i canali per comunicare devono essere molteplici e selezionati di volta in volta in base al contesto e al momento, dimenticandosi dei target e applicando il principio dei vasi comunicanti, dove imprese, enti e cittadini interagiscono in un flusso continuo e “governato”.
Tutto questo, ma anche molto di più.
La comunicazione raggiunge la sua più virtuosa espressione quando, come è successo nella mia esperienza, riesce anche a stimolare le azioni dell’imprenditore per renderle sempre più coerenti con la propria mission che è quella di generare valore, con la consapevolezza che la remunerazione del capitale investito è solo una delle sue componenti valoriali, insieme all’etica e alla qualità della vita e dell’ambiente.
E poiché per la consensualizzazione di un progetto è necessaria la ricerca di un punto d’incontro di comune interesse, l’attività di comunicazione che riesce ad accrescere e a esprimere il valore complessivo di un’iniziativa finalizza il suo ruolo in modo non solo efficace, ma anche decisivo.

Cosa resterà al territorio quando la Filippa avrà finito di funzionare?

Quello che abbiamo promesso fin dalla presentazione del nostro progetto e che già si riscontra oggi. Un’area riqualificata in piena armonia con l’ambiente. Un luogo da vivere dove è possibile svolgere attività turistiche e ricreative. Ma resterà anche una storia d’impresa che ha superato pregiudizi e conflitti, dimostrando che il futuro si costruisce sulla condivisione di valore e di valori. Un modello di sviluppo sostenibile da esportare e replicare.
La strada più difficile è quella che porta più in alto.
 

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