Partiamo dal contesto. Secondo la Ellen MacArthur Foundation entro il 2050 se continuiamo così l’industria della moda consumerà un quarto del bilancio globale dei combustibili fossili. Il settore è responsabile del 10% delle emissioni globali annuali di carbonio, più di tutti i voli internazionali e del trasporto merci. Secondo una ricerca pubblicata su Nature Reviews Earth and Environment, ogni anno vengono consumati 1500 miliardi di litri d’acqua, i rifiuti tessili superano i 92 milioni di tonnellate, la lavorazione e la tintura dei tessuti sono responsabili del 20% dell’inquinamento idrico industriale e il 35% delle microplastiche negli oceani è attribuibile ai lavaggi dei capi in fibre sintetiche. Ogni anno si perdono circa 500 miliardi di dollari per indumenti che vengono a malapena indossati o che finiscono in discarica. Eppure, su quasi 100 milioni di tonnellate di tessili prodotti all’anno nel mondo, appena l’1 per cento viene riciclato: 980mila tonnellate. Il 15 per cento di queste si ricicla a Prato. La città toscana è la capitale mondiale della trasformazione di materiali tessili post-consumo. Nella moda ogni scarto tessile è davvero una risorsa? Perché è così importante scoprire e valorizzare il destino circolare di ogni singolo capo di abbigliamento recuperato? Siamo consapevoli che quando parliamo di sostenibilità nella moda non esiste solo l’upcycling ma una quantità enorme di soluzioni che in molti casi sono più efficienti, creative, innovative, sostenibili e realmente circolari? Troviamo alcune risposte molto concrete a queste domande all’interno della proposta di Atelier Riforma, una start up innovativa torinese a vocazione sociale che sta per lanciare sul mercato Re4Circular, una piattaforma tecnologica fortemente innovativa finalizzata ad agevolare tutti gli stakeholder della filiera degli indumenti usati a indirizzare ogni capo dismesso verso la migliore forma di recupero. Un market place che mette in contatto gli enti e le associazioni che si occupano della raccolta o selezione degli indumenti usati con le realtà produttive della moda circolare. Elena Ferrero, co-founder e CEO di Atelier Riforma: “Siamo nati con lo scopo e l’ambizione di ridurre l’impatto ambientale della moda. La nostra mission è cercare di favorire la transizione circolare del settore della moda che per lo più si affida ancora a un processo produttivo lineare e per questo superato”.
Il mondo della moda è interconnesso al valore del brand. Ed è partendo dal brand che si gioca la partita vera della sostenibilità. “I brand reagiscono molto lentamente alla transizione sostenibile del settore. Ma reagiscono. Lo fanno mossi dalla spinta di due diversi fattori principali. Da un lato i consumatori, sempre più consapevoli e sempre più attenti a informarsi su come vengono prodotti i loro capi di abbigliamento e sulla fine che faranno dopo il loro utilizzo. Dall’altro, subiscono una spinta normativa che soprattutto a livello europeo con il Green Deal si sta muovendo velocemente a sostegno di una rivoluzione produttiva circolare e sostenibile della moda. Queste cornici insieme spingono i brand a impegnarsi per trovare soluzioni e iniziative per comunicare la circolarità dei loro prodotti. Un impegno che può essere radicale, attraverso il cambiamento dei modelli di produzione, oppure soft mettendo delle toppe molto più superficiali al loro operato”. Il limite tra cambiamento reale e green washing è sempre molto labile. Iniziare dal recupero della materia significa fare sul serio economia circolare, ritirare l’usato come strategia commerciale per incentivare nuovi acquisti, lo è un po’ meno. “Le modalità più solide per intraprendere politiche reali e convincenti di economia circolare partono dalla produzione di linee di prodotti che utilizzano il più possibile materie prime seconde, tessuti riciclati e che investono nell’ecodesign dei capi che devono essere riprogettati e ripensati per durare più a lungo, essere facilmente riparabili e disassemblabili a fine vita, riutilizzabili e formati al 100% da un unico materiale per essere facilmente riciclati meccanicamente. Questa è la vera transizione”. Non è paradossale osservare come la moda sino ad oggi abbia minimizzato o addirittura ignorato il tema della materia e l’impatto ambientale della sua produzione escludendo a priori la possibilità di recuperare e riusare cotone, lana, canapa? “Si tende ormai da troppo tempo a guardare solo la superficie e l’immagine del prodotto finito. Oppure si parla di packaging ecosostenibile mentre l’abito al suo interno spesso è insostenibile. L’Italia è uno dei paesi leader della manifattura tessile ed ha una estrema necessità di recuperare ingenti quantità di materia prima seconda proprio perché non produce materie prime. Non coltiviamo il cotone ma abbiamo tutte le competenze circolari necessarie per recuperarlo e riusarlo. E questo know how “naturale” è il nostro più grande alleato e vantaggio competitivo”.
Atelier Riforma è una start up innovativa a vocazione sociale. Come nasce? Come progetto nel 2019, è poi diventata una società nel 2020. Atelier Riforma è partita da un’idea innovativa: creare una rete di sarti, designer e sartorie sociali che si occupasse di trasformare indumenti dismessi per dar loro una nuova vita e rimetterli in circolo attraverso una piattaforma di vendita. Abbiamo lanciato nel 2020 il primo marketplace italiano dedicato all’upcycling. E nessuno parlava ancora di moda circolare! Il nostro modello di business prevedeva la raccolta di capi inutilizzati da privati ed enti, li catalogavamo attentamente uno a uno per poi distribuirli alla nostra rete di “upcyclers” che con la loro creatività e la passione artigiana e il saper fare dell’arte sartoriale diventavano bellissimi abiti rigenerati. Giorno dopo giorno, la rete è cresciuta, arrivando a contare più di 25 realtà sartoriali diverse, diffuse in tutta Italia. La nostra vocazione sociale era definita dalla scelta di sartorie sociali impegnate nell’inclusione lavorativa di persone svantaggiate come migranti, ex-detenute e donne vittime di violenza. Raccogliere gli abiti in un magazzino, uno a uno, distribuirli al nostro network per essere lavorati, recuperati e trasformati attraverso la creatività del re-fashion prima di essere rivenduti; è stata un’esperienza meravigliosa che ci ha insegnato molte delle cose che ci hanno portato qua oggi. Andando avanti però ci siamo rese conto che era una attività complessa, difficilmente scalabile che per essere realmente sostenibile poteva essere svolta solo nel nostro territorio.
Nasce così Re4Circular, il vostro nuovo progetto che sta per partire proprio in queste settimane. Di cosa si tratta? È una tecnologia innovativa finalizzata a raccogliere all’interno di un unico market place tutti gli stakeholder della filiera degli indumenti usati e indirizzare ogni capo dismesso verso la migliore forma di recupero possibile. Questa per noi è la vera creazione di valore circolare: smistare gli abiti e i prodotti tessili usati verso le migliori destinazioni circolari. Dal riuso, al riciclo, all’upcycling ogni capo di abbigliamento ha infatti l’identità circolare che meglio si adatta alle sue caratteristiche specifiche. Basta scoprirla. Attraverso l‘intelligenza artificiale che usa le immagini degli abiti e delle loro etichette, si estraggono tutti i dati che vengono registrati e raccolti dalla piattaforma che così facendo incrocia facilmente domanda e offerta di vestiti usati, mettendo in contatto tutti gli enti che si occupano della raccolta con il mondo delle aziende che si occupano di moda circolare, i negozi dell’usato e il mercato del second hand, le imprese che riciclano i tessuti, le sartorie e gli artigiani del tessile. Re4Circular è uno strumento che permette di facilitare la destinazione di tutti i capi raccolti verso la migliore forma di recupero possibile. Una persona esterna a questo settore potrebbe pensare che l’unico modo di recuperare un rifiuto sia il riciclo. In realtà i vestiti sono prodotti complessi, composti da materie e valori economici anche molto diversi tra loro. La nostra piattaforma è un B2B che permette di alimentare la catena del valore di ogni singolo indumento. Ci sono moltissime piattaforme per la rivendita di vestiti usati tra privati, il fatto però che si muova un capo alla volta fa sì che l’impatto ambientale del suo recupero sia molto alto e spesso insostenibile. Se invece si parlano le aziende che per loro natura muovono ingenti quantità di abiti, allora la moda circolare può diventare davvero uno strumento di sviluppo sostenibile al servizio di tutto il settore e la comunità degli stakeholder”.
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