Contro la cultura dello scarto per una nuova visione circolare e sostenibile dell’economia e delle relazioni all’interno della comunità

di Paolo Marcesini

14/04/2020

"La guerra moderna alle paure umane, sia essa rivolta contro i disastri di origine naturale o artificiale, sembra avere come esito la redistribuzione sociale delle paure, anziché la loro riduzione quantitativa". Parto da questa frase di Zygmunt Bauman perché mai come oggi per ripartire davvero abbiamo bisogno della filosofia e della sociologia.
Servono domande e risposte. Ma parto anche dalla paura perché la cronaca ci sovrasta.

Ci sono Paesi come il nostro che nell'emergenza tirano fuori il meglio della loro identità. Altri che mostrano il volto ignobile delle loro contraddizioni. Mi spiego. I disabili negli Stati Uniti stanno morendo di Covid-19 a un ritmo cinque volte superiore a quello del resto della popolazione. Questo succede perché agli ospedali viene concesso di non fornire un respiratore ai malati cronici o a chi presenta minorazioni fisiche o mentali.

Eccole alcune fotografie lontane dalla retorica pubblicitaria dell’#andratuttobene. Oltre ai disabili non ricoverati negli ospedali e alle contraddizioni di un sistema sanitario, quello americano, che esclude invece di curare, la cronaca ci ha mostrato immagini di fosse comuni scavate nella periferia di New York che seppelliscono cadaveri che non hanno nessuno che ne rivendichi la conoscenza. Nel pianeta ferito dalla pandemia migliaia di donne e uomini vengono abbandonati senza cure, senza difese, senza nessuna forma di assistenza sanitaria. Nascono ovunque tendopoli di emergenza che ospitano chi non ha più nulla di fronte a grandi alberghi chiusi dalla crisi e dall’ombra sempre più inquietante della depressione economica. E ancora, se veniamo in Italia, bare spoglie e senza conforto trasportate da camion dell’esercito italiano lontane da Bergamo per essere cremate e, sempre in Lombardia, ordinanze regionali che consigliavano il ricovero di malati di Covid-19 all’interno di RSA abitate da anziani, la categoria più colpita dal virus, perché portarli lì era la scelta del male minore, ci hanno detto.

Da tempo il Papa ripete che il grande pericolo della società contemporanea è la "cultura dello scarto". “Esistono doveri inderogabili della solidarietà e della fraternità che troppo spesso dimentichiamo", ci ricorda Francesco. Stiamo davvero parlando di persone scartate come succede con i rifiuti gettati nell’indifferenziata?

Non ci crediamo, non lo possiamo accettare, non lo vogliamo nemmeno vedere o ascoltare. Eppure se guardiamo agli anziani, ai disabili, a chi non ha più un lavoro e a come vengono marginalizzati, nascosti, rifiutati e abbandonati scopriamo una verità che non può più essere taciuta. Abbiamo un presunto concetto di superiorità che ci fa nascondere sotto il tappeto tutta la fastidiosa polvere dell’emarginazione e di tutto quello che riteniamo vuoto a perdere. Il Papa non ha paura di usare le parole della nostra vergogna soggettiva e collettiva e descrive esempi di “vite scartate” e “vite indegne” perché non rispondono al criterio di utilità: “Una società merita la qualifica di “civile” se sviluppa gli anticorpi contro la cultura dello scarto; se riconosce il valore intangibile della vita umana; se la solidarietà è fattivamente praticata e salvaguardata come fondamento della convivenza”.
La marginalità è la nuova forma di schiavitù del contemporaneo.

Riflessioni al tempo del virus che però arrivano da lontano. La prima volta che ho prestato attenzione alla definizione di “cultura dello scarto” stavo leggendo un passaggio della Laudato sì, l’Enciclica dedicata all’ecologia della Terra e dello spirito: “È ormai noto che inquinamento, cambiamenti climatici, desertificazione, migrazioni ambientali, consumo insostenibile delle risorse del pianeta, acidificazione degli oceani, riduzione della biodiversità sono aspetti inseparabili dall’iniquità sociale: della crescente concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani di pochissimi e delle cosiddette società del benessere, delle folli spese militari, della cultura dello scarto….”.
Eccola lì quella terribile definizione. Un schiaffo tirato dritto in faccia alle nostre coscienze. L’Economia Circolare, noi ci occupiamo di questo, nella sua visione olistica, l’unica davvero possibile, ci insegna che la cultura dello scarto non può essere mai fine a sé stessa. Tutto può essere recuperato, persone, territori, tradizioni, perché tutto deve essere rigenerato e riutilizzato. Non esistono rifiuti nella materia. Esistono semmai destini da ricostruire e un equilibrio da mantenere perché la disuguaglianza e l’abbandono sono solo disordine che genera crisi, conflitto, rabbia.

Viene alla mente un vecchio saggio del già citato Bauman, socialista per definizione e marxista per vocazione, non a caso titolato Vite di scarto: “La produzione di 'rifiuti umani' o, meglio di 'esseri umani scartati', ovvero in esubero, eccedenti, cioè la popolazione composta da coloro cui non si poteva, o non si voleva, dare il riconoscimento o il permesso di restare – è un risultato inevitabile della modernizzazione”.
Il Manifesto di Assisi, scritto dai Padri Francescani e Fondazione Symbola insieme, rovescia il concetto di inevitabilità a favore della ricerca di un’economia “a misura d’uomo”.

Intanto in molti hanno collegato il Coronavirus alla sostenibilità ambientale. È come se il Pianeta avesse trovato uno strumento per difendersi dall’ipocrita lentezza delle nostre agende pubbliche che fanno finta di non capire l’urgenza della crisi climatica e della mancanza di risorse. Non volete rallentare le emissioni? Ci ha pensato il Covid-19 che in un mese ha fermato tutto. “È il nostro disprezzo per la natura e la nostra mancanza di rispetto per gli animali con cui dovremmo condividere il pianeta che ha causato questa pandemia, qualcosa che era stata prevista molto tempo fa”. Così Jane Goodall, primatologa britannica di fama mondiale ha spiegato l’origine del disastro.

Avremo tempo e modo di capire cosa è successo. Intanto possiamo iniziare a fare delle analisi e a disegnare nuovi scenari. Ad esempio, quali saranno gli effetti del Coronavirus sull’economia e lo sviluppo sostenibile? ASviS , l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, ha condotto una valutazione quantitativa dell’andamento della crisi derivata dal Covid-19, calcolandone l’impatto su ciascuno dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile che compongono l’Agenda 2030 dell’ONU. Scopriamo così un probabile impatto negativo segnatamente sui Goal 1 (povertà), 4 (educazione), 8 (condizione economica e occupazionale), 9 (innovazione), 10 (disuguaglianze).
Insomma. Il tema della coesione sociale e dei suoi bisogni, individuali e collettivi sono la trincea dove combattere adesso la battaglia per la sostenibilità ambientale di domani. ASviS e il Forum Disuguaglianze e Diversità insieme hanno proposto al Governo l'adozione di due misure universali di sostegno al reddito, il “Sostegno di Emergenza per il Lavoro Autonomo” (SEA) e il “Reddito di Cittadinanza per l’Emergenza” (REM), da considerare misure temporanee ed eccezionali, la cui durata dovrebbe essere uniformata a quella delle prestazioni straordinarie per il lavoro dipendente introdotte in seguito al diffondersi della pandemia.
Facile dirlo. Difficile non solo farlo ma persino immaginarlo soprattutto in Europa che per l’ennesima volta ha dimenticato il significato autentico della parola solidarietà.

Insomma servono visione, coraggio, voglia di futuro.
Già, ve lo ricordate il futuro?  Da alcuni giorni mi capita di riflettere sulla mancanza del presente. È come se il Covid-19 ci avesse costretti a pensare a cosa succederà. E noi non ci eravamo più abituati. Ma non solo noi. Anche la politica, l'economia, il nostro essere comunità. Perché costruire il futuro obbliga a esercizi che hanno bisogno di competenza e immaginazione. E noi spesso il saper fare e la creatività li abbiamo tolti dalla logica dello sviluppo e del progresso (non della crescita, dello sviluppo e del progresso) in nome di un presentismo sterile e fine a se stesso. La nostra classe dirigente è figlia più o meno consapevole del concetto di fine della storia del politologo Francis Fukuyama: secondo questa tesi storiografica l'evoluzione è compiuta lasciando aperta la strada verso la deresponsabilizzazione che chiamiamo "mancanza di visione". Insomma, una sorta di tana libera tutti dall’obbligo di pensare razionalmente alla costruzione del futuro.
Che errore! Oggi sappiamo che una sanità efficiente (e più in generale un welfare pubblico che non trascura le necessità individuali) e la lotta alle diseguaglianze rappresentano il più grande scudo possibile contro la recessione e la depressione economica. Il presente della politica non aveva calcolato il rischio (evidente) dei tagli alla sanità e la fragilità del nostro sistema occupazionale a cui adesso deve garantire liquidità per non far morire di fame migliaia di persone che non hanno reddito e nemmeno ammortizzatori sociali.

Una lezione dura per la politica di governo, ma ancora di più per la ricerca di consenso, per il sistema della produzione, per la logica del profitto, per il mondo sindacale. La sanità pubblica è un valore. Il welfare è un valore. Il lavoro è un valore. La sostenibilità è un valore. E questi sono prima di tutto temi pubblici. E mai come in questo momento il concetto di ripartenza, di riapertura e di ridefinizione delle attività lavorative e sociali rappresentano un'occasione formidabile per avviare un processo di cambiamento che possa portare a nuovi e migliori equilibri.
Il re-think attraverso la logica circolare dell’economia e dell’organizzazione delle relazioni all'interno delle comunità, insieme all’abbandono della cultura dello scarto in favore di una definizione chiara di “utilità” verso tutto ciò che viene nascosto e messo da parte, rappresentano l’ecosistema da cui ripartire. 
L’unico realmente possibile.
 

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