Roberto Cardaci prima di tutto è un amico con cui condivido il piacere del reciproco ascolto. Ma soprattutto è un sociologo capace di analizzare e costruire nuove ipotesi di futuro, e di farlo con la pazienza militante della scrittura. Militante perché crede ancora nella forza dell’analisi e nell’utopia generativa e rivoluzionaria delle buone idee. Paziente perché con il talento cristallino della sua scrittura le mette nero su bianco per condividerle in maniera autentica, chiara, leggibile e mai scontata. La militanza e la pazienza non consentono mai scorciatoie. Devono per forza dire sempre la Verità. Il suo ultimo libro, Superare la recessione. Lavoro e welfare per rilanciare l’economia reale, è una fotografia che non può lasciare indifferenti. Il punto di partenza è la descrizione della povertà che oscura il nostro tempo. Una povertà soprattutto occupazionale, capace da sola di generare gran parte delle diseguaglianze sociali, ormai non più gestibili con le attuali e inadeguate politiche assistenziali. La globalizzazione e la trasformazione tecnologica e digitale hanno marginalizzato il lavoro in maniera ormai irreversibile. Siamo davvero arrivati alla fine del lavoro? Roberto non si arrende, e fa bene. Serve però un cambio di paradigma, un processo evolutivo del welfare che deve diventare generativo e di comunità, individuando settori innovativi come la green economy per favorire “nuovi lavori” al servizio di un’economia produttiva finalmente sostenibile e “a misura d’uomo”. Un tema, questo, che apre a soluzioni, contraddizioni e paradossi che ci interrogano ogni giorno. Assolutamente da leggere. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo un estratto dal primo capitolo del libro. (Paolo Marcesini)
di Roberto Cardaci Le tematiche inerenti povertà, poveri, lavoro e welfare oggi non possono essere affrontate se non in riferimento alla globalizzazione che negli anni ha disvelato progressivamente le sue caratteristiche: positive (poche, invero) e negative (molte). Esiste, comunque, un modello teorico di globalizzazione che può funzionare in modo evolutivo, come oggi avviene, secondo uno dei massimi studiosi del fenomeno, Stiglitz, in Paesi dove il modello dell’economia globalizzata ha avuto un utilizzo virtuoso perché ha attivato una sinergia costruttiva tra imprenditori e governi locali. Proprio questi ultimi l’hanno concretizzata in provvedimenti finalizzati a superare l’analfabetismo, potenziando in primis la scuola primaria e incrementando gli istituti e la formazione qualificata di tecnici. Si è così creata una situazione che ha dato impulso all’innovazione sia nelle imprese locali che in quelle ospitate provenienti dai Paesi dell’emisfero Occidentale, grazie anche al sostegno di ingenti investimenti statali in infrastrutture, programmazione di strategie di innovazione tecnologica di processo nelle aziende, tenendo però ben presente lo sviluppo di quelle locali. La globalizzazione ha così assunto una valenza da modello virtuoso, capace di coniugare l’intervento dello Stato con il mondo imprenditoriale, consentendo in tal modo a quei Paesi di raggiungere una considerevole evoluzione. E poco importa se i liberisti “puri” hanno arricciato il naso, come puntualmente capita quando l’intervento dello Stato stimola e incrementa l’economia, e non si occupa unicamente di attuare politiche sociali finalizzate a erogare sussidi per riparare guasti sociali causati da incapacità o improvvide decisioni dei settori dell’economia finanziaria. Gli economisti, soprattutto di scuola neoliberista, confidavano nella certezza che l’applicazione del modello teorico avrebbe risollevato le condizioni di vita degli abitanti dei Paesi più poveri, permettendo a queste nazioni di svilupparsi non soltanto economicamente. Invece il risultato ha dimostrato la negatività della globalizzazione, poiché non si sono verificati miglioramenti radicali ma una povertà pressoché assoluta che è diventata la causa principale dei flussi migratori che dall’Africa, e dalle zone interessate da guerre di diversa natura, giungono nei Paesi europei, in particolare in Italia in virtù della sua collocazione geografica. Né peraltro ci si potevano attendere esiti diversi se la scelta, delle imprese riguardo ai Paesi dove collocare le proprie attività, era dettata dai bassi salari, dall’assenza di garanzie sindacali, dall’inesistenza di vincoli di responsabilità sociale e dalla mancanza praticamente totale di legislazioni in merito alla tutela dell’ambiente: facili profeti, i critici della globalizzazione, nel prevedere che i Paesi ospitanti non avrebbero ottenuto miglioramenti significativi di sorta se non nelle élites del potere economico e politico. Nella fase storica attuale della postmodernità, secondo la definizione che ne ha dato Bauman, lo studioso più attento alle trasformazioni economiche e sociali verificatesi nella seconda metà del ’900, la globalizzazione è stata il catalizzatore della liquidità in economia e nei rapporti sociali. Nell’Occidente industrializzato, ma ormai postfordista, con la caduta verticale dell’occupazione e la frammentazione o rottura delle reti di relazione sociale, la globalizzazione ha avuto effetti destruenti sulla vita delle persone. La conseguenza macroscopica più evidente è stata lo strutturarsi di una disuguaglianza che ha riguardato sia l’economia (con la concentrazione delle risorse produttive e finanziarie nelle mani di un ristretto numero di multinazionali nei Paesi più ricchi) sia i sistemi sociali, soprattutto nei Paesi dell’Occidente industrializzato: negli Stati Uniti come in Europa si sono acuite le distanze tra i sempre più ricchi e i sempre più poveri, con la novità del coinvolgimento del ceto medio, anche quello di più alto livello. Nel caso dell’Italia occorre considerare che la disuguaglianza ha caratterizzato il sistema economico e sociale fin dall’Unità: la questione meridionale, il dualismo nord-sud, le differenze tra cittadini sono state descritte e analizzate da studiosi di scuole di pensiero differenti nel passato, ma soprattutto in epoche più recenti, quando la crisi economica ha cominciato a rendere evidenti i suoi effetti di ricaduta sui cittadini più deboli. La povertà è la rappresentazione palese e concreta della diseguaglianza in tutti i Paesi che la vivono, povertà che pervade ormai ogni ceto sociale, peggiorando non solo le condizioni di vita di quelli tradizionalmente e storicamente più deboli ma anche delle classi medie (senza escludere le alte) che fino a pochi anni fa erano da considerarsi immuni sia dalla vulnerabilità sociale, anticamera della povertà, sia dalla stessa povertà strutturata e consolidata.
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