È tutta una questione di impronte

di Francesca Milani

28/01/2022

First Footprint on the Moon, NASA Archives
La neutralità climatica per la moda potrebbe essere un’opportunità per ridurre l'impatto di una delle industrie più inquinanti al mondo, ma solo se le aziende sono in grado di tracciare le emissioni dello scope 3 questo potrà avere un impatto reale sull'ambiente e sulla società.

Con circa 2,1 miliardi di tonnellate di emissioni di CO2-equivalente (CO2-e) all'anno - ossia il 4% delle emissioni globali annuali [1] la moda si classifica tra i più grandi inquinatori mondiali, con un impatto maggiore di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme.[2]

Certamente, quando ci ritroviamo davanti all’armadio per decidere cosa indossare, sia per una nuova giornata di lavoro, o impressionare il nuovo capo o una serata con le amiche, le emissioni di CO2 non sono il nostro primo pensiero.

Compriamo nuovi vestiti perché sono accessibili, alla moda, una dichiarazione sociale, un passatempo divertente per distrarci dal lockdown. Ma le scelte che facciamo, stagione dopo stagione, hanno un impatto enorme sull’ambiente.

La moda è responsabile di diversi danni ambientali lungo tutta la catena del valore: degrado del suolo, spreco di acqua, utilizzo di prodotti chimici, emissioni di CO2, microplastiche, ed infine metano prodotto da intere collezioni di vestiti che finiscono nelle discariche. 
Non possiamo inoltre dimenticarci della forza lavoro, costituita principalmente da donne, che spesso lavorano in condizioni di sicurezza sociale minime.

I danni ambientali possono essere tracciati lungo tragitti mondiali: un indumento durante il suo ciclo di vita si muove dalla Cina o dal Pakistan, viaggia attraverso tutti i continenti, per finire a morire nelle discariche dell’Africa.

Con un raggio d’azione così ampio e impattante, è impossibile non aspettarsi che l'industria faccia un passo in avanti per migliorare il sistema attuale.

Per fortuna la maggior parte delle aziende si sta muovendo, ma non ancora in modo sufficiente.

Per limitare l'aumento della temperatura globale a 1,5 gradi Celsius sopra i livelli preindustriali, e progredire verso le emissioni zero di carbonio entro il 2050, il mondo deve dimezzare le emissioni di CO2, e prima del 2030. 

Il settore moda ha dovuto necessariamente accettare questa sfida.

Diversi sono gli impegni già presi dalle aziende e dalle catene di fornitura (tra i più famosi il Fashion Pact e il Fashion Industry Charter) che stabiliscono chiare linee guida per ridurre le emissioni di gas serra (scope 1, 2 e 3) insieme a un percorso di decarbonizzazione basato sui Science-Based Targets.

Tra le iniziative più citate, l'economia circolare è la strategia spesso portata come driver per la moda sostenibile. 
Secondo l'ultimo rapporto McKinsey "The State of fashion 2022", il 60% dei dirigenti nel settore moda ha già investito o prevede di investire nel riciclo a circuito chiuso (closed loop recycling) il prossimo anno.

Questo è un ottimo segno, perché dopo anni passati a rivendicare il cotone biologico certificato e il poliestere riciclato come unica soluzione, si guarda ad un approccio più concreto e innovativo per reinventare la moda e raccontare nuove storie.

L'economia circolare si basa sull'idea di creare un ciclo continuo di materie prime e prodotti per non sprecare alcuna risorsa. Basandosi sul principio delle “7 R”, l'idea è quella di ripensare il processo inventando nuovi modi di produrre, usare e mantenere in vita i capi il più a lungo possibile.

Nella moda questo si applica in molteplici approcci, tra cui il design modulare, il riutilizzo dei materiali di scarto della produzione, il noleggio, la riparazione, l'usato e infine il riciclo dei capi, o dei tessuti.

Se pensiamo alla quantità di suolo, acqua, pesticidi, energia utilizzata per produrre i capi, poterli riutilizzare e riportarli in vita potrebbe avere un impatto significativo su molteplici ambiti, a beneficio dell'ambiente, ma portando con sé anche benefici economici.

Ecco perché le leggi come quelle introdotte dai governi italiano e francese che impediscono ai vestiti di finire nelle discariche sono state felicemente acclamate[3].

Ma anche i cicli chiusi hanno comunque un impatto sul cambiamento climatico. Spesso i materiali vengono raccolti in un Paese, trasformati in un altro e venduti in un altro ancora, con una massiccia quantità di emissioni prodotte dal sistema logistico, che attualmente non è ancora stato elettrificato.

Un importante lavoro svolto nel 2021 da Enel X e SDA Bocconi School of Management ha individuato alcune macro tendenze nel settore della moda, analizzando la capacità delle aziende di adattare i principi della Circular Economy lungo la catena del valore.

I risultati del report, che analizza 14 aziende partner, hanno evidenziato che nonostante gli sforzi fatti in fase di progettazione, il supporto del digitale e la normativa che spinge e aiuta la transizione, esiste ancora un grande gap sul consumo di energia elettrica. Solo poche aziende infatti utilizzano energie rinnovabili o monitorano e rendono più efficiente l'uso dell’energia. Dal rapporto emerge che passando all'energia verde si potrebbe risparmiare quasi il 30% delle emissioni di CO2.[4]

Come vediamo il tema delle emissioni di CO2 e della decarbonizzazione è un tema chiave se vogliamo parlare di moda sostenibile.

L'economia circolare da sola non può essere la soluzione. La maggior parte delle tecnologie per il riciclaggio dei materiali non sono ancora state implementate su larga scala, i sistemi di raccolta sono ancora in fase di sviluppo nella maggior parte dei Paesi e in ogni caso la produzione comporta comunque nuove emissioni di CO2.
 

Allo stato attuale, il 60-70% delle emissioni proviene dai processi di produzione, mentre solo il 30% proviene dalla vendita al dettaglio, dalla logistica e dall'uso del prodotto (come il lavaggio e l'asciugatura). 

Bisogna quindi lavorare su un approccio più sistemico, che preveda un forte coinvolgimento della catena di fornitura: questa è la strategia win-win che la moda deve adottare per sopravvivere.

Nonostante le difficoltà, lavorare con una lunga e vasta rete di fornitori e sub fornitori, spesso lontani dalla sede centrale, potrebbe essere uno sforzo molto ben ripagato.

Coinvolgere i propri fornitori significa costruire un mondo più resiliente, che nonostante il reshoring della supply chain e la diversificazione delle fonti di materie prime, dia gli strumenti economici e professionali per creare un mondo migliore, meno dipendente dal carbonio, meno inquinato, meno arido, e quindi meno a rischio degli effetti del riscaldamento globale. 

Senza dimenticare l'impatto che questo può avere sull'aspetto sociale, come ci insegnano gli ultimi avvenimenti nella regione dello Xinjiang.[5]

Un altro metodo potrebbe essere quello di introdurre un monitoraggio più accurato delle emissioni scope 3 nel sistema di reporting. Un recente articolo pubblicato su HBR svela un possibile nuovo approccio chiamato e-liabilities che propone un sistema di contabilità ambientale che incanala le informazioni sui gas serra attraverso i contratti di acquisto e vendita di prodotti e servizi delle aziende nello stesso modo in cui le informazioni sui costi/prezzi si spostano dai fornitori ai clienti lungo le catene di fornitura più complesse.[6]

Anche il reshoring potrebbe essere una risposta valida per abbattere i costi soprattutto logistici, e avere più controllo sulla filiera, ma in un sistema economico basato sulla globalizzazione, non sarà probabilmente la via più veloce e le emissioni continueranno ad esserci, anche se i paesi dell'UE hanno una minore dipendenza dal carbonio rispetto all'Asia.[7]
 

Uno dei maggiori driver di cambiamento nel sistema si sta avendo grazie alle piattaforme di e-commerce, che stanno chiedendo e guidando i propri fornitori a monitorare le supply chain. 

Zalando, per esempio, sta aprendo la strada, spingendo i confini e costringendo i marchi che vendono sulla sua piattaforma a definire strategie climatiche.

Comprendendo le sfide di definire la sostenibilità all'interno dell'industria della moda, Zalando ha collaborato con la Sustainable Apparel Coalition per sviluppare una definizione a livello industriale su come misurare l'impatto ambientale e sociale dei prodotti, per guidare le riduzioni e per comunicare la sostenibilità nell'industria dell'abbigliamento. 
Entro il 2023 la piattaforma e-com venderà solo prodotti di marchi che hanno soddisfatto il loro nuovo standard.
Per concludere possiamo dire che tutti gli sforzi fatti dalle aziende già impegnate a fissare obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra, proteggere la biodiversità, investire in progetti di compensazione e insetting, lavorare su prodotti di eco/design, implementare energie rinnovabili, non saranno sufficienti se i marchi di moda non saranno in grado di coinvolgere la loro catena di approvvigionamento.

In un mondo della moda dominato dal problema di affrontare le interruzioni della catena di approvvigionamento, mantenere vivi gli interessi dei consumatori, o come entrare nel metaverso, la vera domanda dovrebbe essere "Come farlo con il minor impatto sul clima?"

È qui che entra in gioco la moda carbon neutral.
Moda carbon neutral significa realizzare un sistema in cui le aziende e la catena di approvvigionamento hanno misurato il loro impatto ambientale. Significa conoscere l'impronta di carbonio dei processi e dei prodotti, ridurli e compensare le emissioni residue.

La riduzione delle emissioni si applica attraverso strategie concrete, per esempio:
    - Utilizzo di materiali più sostenibili (riciclati e riciclabili)
    - Usare energia rinnovabile (o acquistare certificati verdi)
    - Ridurre i rifiuti, prodotti chimici e acqua
    - Ridimensionare la produzione
    - Ridurre gli imballaggi ed eliminare la plastica
    - Ottimizzare la logistica
    - Comunicare in modo trasparente
    - Impegnarsi a quantificare, tracciare e riportare pubblicamente le emissioni di gas serra e sviluppare un programma di lavoro e gli strumenti necessari per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra; [8]

Infine le emissioni residue possono essere compensate, attraverso l’investimento in progetti di compensazione che ripristinano il suolo e la biodiversità.
Questo finché le tecnologie di cattura della CO2 non saranno più accessibili.

Ora più che mai è fondamentale che l'industria della moda si assuma la responsabilità delle proprie emissioni.

Il gigante è troppo grande per fallire ma se non agiamo in fretta, sarà presto vittima di se stesso.

[1] McKinsey, 2018, https://www.mckinsey.com/industries/retail/our-insights/fashion-on-climate
[2] https://www.worldbank.org/en/news/feature/2019/09/23/costo-moda-medio-ambiente
[3] “Landmark French law will stop unsold goods being thrown away”, Kim Willsher, The Guardian, 30 Gen 2020, https://www.theguardian.com/world/2020/jan/30/france-passes-landmark-law-to-stop-unsold-goods-being-thrown-away
[4] Una transizione sostenibile per il settore della moda, 20 Set 2021, 
[5]U.S. bans cotton imports from China producer XPCC citing Xinjiang ‘slave labor’, David Lawder, Dominique Patton, Reuters, 2 Dic 2020, https://www.reuters.com/article/us-usa-trade-china-idUSKBN28C38V
[6] “Accounting for Climate Change”, Robert S. Kaplan, Karthik Ramanna, Harvard Business Review, Nov-Dic 2021, https://hbr.org/2021/11/accounting-for-climate-change
[7] https://www.cnbc.com/2021/11/08/cop26-charts-show-asia-pacifics-heavy-reliance-on-coal-for-energy.html
[8] Fashion Industry Charter for Climate Action
Link all'articolo originale: https://francescamilanidxb.medium.com/
 

Tag:  economia circolareemissioni CO2impronta ecologicasistema moda

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