«Ah, che bello ‘o cafè, pure in carcere ‘o sanno fa’ […]» cantava De André, ricordandoci che, anche se bistrattati – quasi rimossi – dalla società, i detenuti non hanno meno umanità delle altre persone, e il saper fare il caffè ne è la riprova. Rito quotidiano in diverse parti del mondo, anche se con tecniche e modalità differenti, è la bevanda che meglio incarna il modello socioeconomico globalizzato cui apparteniamo, fin dalle sue prime apparizioni europee. Nel breve excursus sulle tracce della droga più popolare al mondo, se ne vedranno luci e ombre: dal rischiaramento delle obnubilate menti medioevali alle rotte schiaviste sette-ottocentesche, passando in rassegna alcuni di quegli aspetti taciuti che fanno dire a Benjamin Y. Fong che «il caffè è lo spirito del capitalismo in forma di infuso». Introdotto in Europa intorno al XVII secolo, il kahwa (caffè) fu tra gli elementi che determinarono quel periodo di fermento culturale noto come Illuminismo, così come mostrano diversi studi quali, per fare qualche nome, quelli condotti da Tom Standage e Michael Pollan. Non è strano se si pensa che, all’epoca, vino e birra erano le bevande adatte a qualsiasi orario, anche per i bambini. Il motivo? Presto detto. Date le precarie condizioni igienico-sanitarie del tempo e le continue minacce alla salubrità dell’acqua, solo tramite la fermentazione alcolica del vino o la bollitura della birra ci si potevano garantire bevande prive di contaminazioni. In quel contesto il caffè, oltreché sicuro, aveva l’ulteriore vantaggio di risvegliare le menti dal torpore alcolico di secoli di sbronza collettiva e, in breve tempo, divenne molto apprezzato da filosofi, scienziati, artisti e da tutti coloro che svolgevano attività intellettuali anziché fisiche. Così, nel 1629, aprì la prima caffetteria d’Europa a Venezia; nel 1650 si replicò a Oxford e, nel giro di soli trent’anni, a Londra se ne contava una ogni duecento persone. I “cafè” si consacrarono rapidamente a locali sobri ed eleganti, luoghi di cultura, scambio d’opinioni e notizie che svolsero un ruolo cruciale durante il secolo dei Lumi. Creduto vero e proprio antidoto all’alcool, elogiato come «liquido austero e benefico» dai poeti, il caffè deve oggi ripensare il suo modello economico partendo dal rispetto delle comunità di orgine delle coltivazioni a dalla gestione dello scarto. Sì, perché se il caffè è indubbiamente un prodotto scarsamente deperibile e capace di conservarsi molto a lungo (soprattutto grazie alle tecnologie di confezionamento odierne), è anche vero che i chicchi macinati vengono utilizzati quasi esclusivamente in infusione, ragion per cui si stima che in Italia vengano prodotte circa 300.000 tonnellate l’anno di fondi di caffè, che comportano costi enormi in termini di gestione, smaltimento ed emissioni di carbonio nell’atmosfera. Numeri mastodontici, ma quasi trascurabili se paragonati a quelli globali. Per farsi un’idea, è bene tenere presente che il mercato del caffè è tra i maggiori al mondo in termini di volumi, secondo solo a quello del petrolio e che l’80-85% circa del prodotto diventerà rifiuto. Come valorizzare questa considerevole mole di scarti e reinserirla nel ciclo produttivo in un’ottica di sostenibilità e upcycling? Oggi, in rete, spopolano ricette per il riutilizzo domestico del caffè esausto e, trattandosi di una sostanza piuttosto versatile, i tutorial più gettonati spaziano dalla cosmesi al giardinaggio, passando per le pulizie della casa. Autoproduzione a parte – interessante, ma circoscritta a contesti casalinghi – diverse sono le aziende che stanno sviluppando soluzioni innovative ad elevato impatto ambientale. Tra queste, una delle realtà più attive sul fronte dell’economia circolare è, senza dubbio, la Cooperativa Sociale il Giardinone che ha all’attivo due startup – nate a latere della loro attività – impegnate sul recupero e la valorizzazione dei fondi di caffè. Il primo progetto, FungoBox, consiste in un kit casalingo per la coltivazione dei funghi ostrica che utilizza un substrato composto di caffè esausto inoculato con il micelio: un’idea semplice, ma molto acuta e che corrisponde pienamente alla filosofia dell’upcycling secondo cui da uno scarto è possibile ricavare qualcosa di valore come, in questo caso, dell’ottimo cibo. Accanto a questo kit, l’altra azienda spin-off nata dall’esperienza della cooperativa è Coffeefrom che utilizza i fondi di caffè, miscelati con dei materiali bioplastici, per produrre tazzine e piattini da caffè, tazze, penne e altro ancora. Progetto analogo (anche nel nome) a quello della tedesca Kaffeeform la quale ha all’attivo una collaborazione con Lilienthal Berlin – un’azienda che produce accessori sostenibili – con cui hanno realizzato un orologio da polso prodotto interamente con materiali organici di recupero. Altra applicazione possibile riguarda la produzione di biocombustibili quali, ad esempio, il pellet prodotto da Bio-bean. Tale impiego si presenta come un’alternativa decisamente più sostenibile ed ecologica rispetto ai combustibili tradizionali e consente un notevole risparmio di emissioni derivanti dallo smaltimento del caffè esausto (pari al 70-80% di quelle delle discariche o degli impianti di digestione anaerobica). Il caffè, dunque, oscuro “liquore sobrio” capace di illuminare le menti, deve oggi ripensare il suo paradigma industriale, economico e circolare perché, parafrasando un famoso slogan pubblicitario: il caffè, se non è «buono da pensare», che piacere è?
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