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Il contributo della Responsabilità Sociale d’Impresa allo sviluppo sostenibile
Il contributo della Responsabilità Sociale d’Impresa allo sviluppo sostenibile
di Giada De Luca
18/09/2020
Che cosa vuol dire Responsabilità Sociale d'Impresa? E in che modo rientra nel nuovo paradigma dello sviluppo sostenibile che rappresenta l’unica via d’uscita dalla grave crisi climatica, ma anche sociale e economica, che stiamo vivendo? Ce lo racconta Giada De Luca che su questi temi ha sviluppato la sua tesi di laurea in Storia del pensiero politico contemporaneo.
È ormai risaputo che parlare di Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) – o Corporate Social Responsability (CSR) - al giorno d’oggi significa fare i conti con il concetto di sostenibilità. È sempre stato così? No, mentre l’attenzione per la sostenibilità ambientale si è affermata in tempi più recenti, il tentativo di elaborare un nuovo modo di intendere l’impresa affonda le sue radici ben più lontano.
Già negli anni ’50 del Novecento, l’economista statunitense H.R. Bowen parlava di Social Responsibilities of the Businessman, conferendo all’imprenditore la responsabilità di considerare l’impatto sociale delle sue azioni. Gli studi sulla Corporate Social Responsibility (CSR) dei quali Bowen verrà considerato precursore, saranno approfonditi però solamente nel corso degli anni ’60, per poi esplodere nei decenni successivi con l’avvento della globalizzazione. Contemporaneamente, l’impresa estendeva la sua influenza oltre la sfera economica, rendendo sempre più complicato quel rapporto tra “scopi di mero profitto” e “valori sociali”. Tanto che durante gli anni 70’ furono numerose le riflessioni sulla responsabilità sociale, al fine di circoscrivere l’azione delle imprese sempre più estese a livello internazionale. Tuttavia, la formulazione della CSR era ancora in fase embrionale, senza set di azioni o standard di performance cui fare riferimento, rendendo questo nuovo approccio alla sfera economica e sociale, uno scenario preoccupante agli occhi degli oppositori. Tra questi, è celebre l’invettiva formulata da Milton Friedman nel 1972 in un articolo pubblicato sul New York Times intitolato “The social Responsibility of Business is to Increase its Profits”. Tale avversione deriva anche dal fatto che dal dopoguerra i paesi sviluppati non avevano mai messo in discussione il loro modello di crescita economica, considerandola come una testimonianza dello sviluppo del paese.
Tuttavia, come sottolinea Senatore quando ripercorre la storia della sostenibilità, i termini crescita e sviluppo erano stati considerati erroneamente sinonimi. Il primo indica in realtà esclusivamente un dato numerico e può configurarsi in pochi settori produttivi o segmenti economici, accrescendo comunque il valore economico assoluto dell’indicatore che lo misura. Il secondo indica un miglioramento delle condizioni di vita di una società, inglobando la sfera ambientale e sociale in quello che oggi viene definito sviluppo sostenibile. In conclusione, quella prolungata fase di crescita economica che aveva caratterizzato l’Occidente nella prima metà del Novecento nascondeva limiti, contraddizioni, disuguaglianze sociali e problematiche ambientali che sarebbero emerse in via ufficiale dal Rapporto sui limiti allo sviluppo, Limits to growth, pubblicato dal Club di Roma nel 1972.
Nonostante i toni del Rapporto fossero considerati “apocalittici” ebbero il merito di sensibilizzare la comunità scientifica e l’opinione pubblica sui possibili sviluppi distruttivi di un’economia basata sulla crescita esponenziale. Fu, infatti, nello stesso anno, che le Nazioni Unite organizzarono a Stoccolma, la prima conferenza mondiale sull’ambiente. Nella seconda metà del Novecento nasceva così l’esigenza di confrontarsi con un nuovo paradigma di sviluppo che fosse in grado di promuovere la cultura di una crescita economica rispettosa dei limiti ambientali. In quegli stessi anni si diffonde la prima definizione compiuta di sviluppo sostenibile, la quale secondo La Camera si deve al Rapporto Our Common Future, in cui veniva identificato come quello sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere quelli delle generazioni future. Questo Rapporto segnava un momento decisivo per la presa di coscienza sulle sfide che l’umanità si trovava ad affrontare. In questa direzione, anche l’Unione Europea avrebbe dato il suo contributo, seppur spesso criticata per aver messo in campo politiche inefficaci per la salvaguardia del pianeta. La base giuridica per una politica ambientale europea poteva essere rintracciata nel Trattato Istitutivo delle Comunità Europee, ma furono l’adozione dell’Atto Unico Europeo nel 1986 e l’adozione del Trattato di Maastricht nel 1992 a conferirle un fondamento giuridico, permettendo all’ambiente di essere integrato nelle politiche comunitarie. I trattati successivi e i programmi comunitari di azione non faranno che incrementare l’impegno europeo per la tutela ambientale.
Il concetto di sostenibilità era diventato negli anni un modello capace di coinvolgere trasversalmente le discipline politiche, sociali, economiche e aziendali. In particolare, era sempre più chiaro che la strada per la piena realizzazione dello sviluppo sostenibile dipendesse dalla ricerca di un nuovo modo di produzione, capace di risolvere il conflitto tra sviluppo e tutela ambientale. In virtù di queste esigenze, la Commissione delle Comunità europee ebbe un ruolo pioneristico nella sistematizzazione e promozione di un quadro europeo per la RSI, attraverso la pubblicazione del Libro Verde nel 2001. In esso, la RSI veniva definita come “l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. La sostenibilità ambientale guadagnava così un ruolo di primo piano tra le responsabilità dell’impresa. Il percorso della RSI in Europa prosegue poi con l’istituzione del Forum multilaterale sulla RSI e col varo dell’Alleanza europea per la RSI, per fare dell’Europa un polo di eccellenza in materia. Si può infine affermare che la RSI ha saputo contribuire all’implementazione di pratiche sostenibili, in un contesto in cui risulta impossibile isolare gli elementi economici di un’azione dalla valutazione delle conseguenze di stampo etico e sociale. In questa direzione, si auspica una più ampia collaborazione e integrazione tra gli aspetti della Responsabilità Sociale d’Impresa e della sostenibilità ambientale. Tale ricerca ha senso se ci poniamo nell’ottica riformista e promotrice dello sviluppo sostenibile, sostenuta con vigore dalle istituzioni internazionali e da quelle europee, e osteggiata da altri. Questo paradigma è fortemente criticato dagli esponenti della teoria della Decrescita, di cui Serge Latouche è il massimo esponente. Essi sostengono che la crescita economica non sia sostenibile per l’ecosistema e pertanto ritengono che lo sviluppo sostenibile sia un concetto non più applicabile alle moderne economie occidentali, le quali dovrebbero impiegare piuttosto metodi drastici per la riduzione dell’impatto ambientale del loro operato, passando da una logica di crescita a un modello economico alternativo basato sulla decrescita.
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