Jeremy Rifkin e il Green New Deal del lavoro

di Paolo Marcesini

02/01/2021

Photo credits: Mondadori

Era il 1995 e quel titolo fu l’apocalisse: La fine del lavoro, il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era post-mercato. A scriverlo un economista autorevole e molto ascoltato, Jeremy Rifkin. La tesi era scandalosamente semplice e decisamente verosimile. Prima l’uomo lavorava nei campi, con la prima rivoluzione industriale tutti vanno in fabbrica, durante la seconda rivoluzione industriale le fabbriche chiudono e arrivano i servizi, il terziario più o meno avanzato che insieme all’innovazione e lo sviluppo della tecnologia fanno intravedere un mondo che non ha più bisogno del lavoro. Ma il lavoro, il salario, la disponibilità economica di risorse sono alla base del mercato, della crescita, dello sviluppo. Come gestiremo la disoccupazione? Come potrà il mercato adeguarsi alla mancanza di risorse? Cosa ce ne faremo di tutto questo tempo libero? Come potremo redistribuire il reddito tra le èlite produttive e la massa improduttiva?
 
Quel libro era un pugno nello stomaco che in più aveva due enormi vantaggi; si faceva capire e poneva delle domande altrettanto semplici ma fondamentali. Possiamo redistribuire il lavoro prima ancora del reddito? Possiamo rivedere e normare la definizione di globalizzazione che non può e non deve essere solo una gestione finanziaria delle risorse e delle materie prime? Possiamo iniziare finalmente a parlare di economia del terzo settore e di ascolto dei bisogni e non solo di perdite e profitti? In altre parole, possiamo rendere il lavoro una produzione di benessere, coesione e condivisione di saperi e conoscenze e non solo una necessità al servizio della società dei consumi?
 
Dal 1995 ad oggi molte cose sono cambiate, ma le domande sono rimaste le stesse. Sono le risposte che non sono arrivate strangolate all’interno di un dibattito troppo lento rispetto al divenire sempre più veloce delle cose.
Adesso Rifkin ci ripensa perché qualcosa di inaspettato è arrivato a cambiare il paradigma delle nostre esistenze e a ridefinire il futuro del lavoro. Vivere dei giacimenti di combustibili fossili dell'era del carbonio per oltre due secoli ci ha indotto erroneamente a immaginarci un futuro senza fine, dove tutto sarebbe stato possibile e il prezzo da pagare irrisorio. Abbiamo finito per credere di essere padroni assoluti del nostro destino e che la Terra esista perché noi possiamo sfruttarla. Non abbiamo capito che qualunque cosa avvenga in questo pianeta presenta un conto in termini di entropia. Abbiamo chiamato quell'epoca l'Età del progresso. Ora il conto è arrivato ed è il cambiamento climatico.

Basta leggere poche righe dell’introduzione del suo nuovo saggio Un Green New Deal globale. Il crollo della civiltà dei combustibili fossili entro il 2028 e l’audace piano economico per salvare la Terra (Mondadori) per capire la portata e l’urgenza del dibattito in corso: “Una nuova visione sul futuro dell'umanità sta rapidamente guadagnando slancio. Di fronte a un'emergenza climatica planetaria, una giovane generazione sta promuovendo un dibattito sull'ipotesi di un Green New Deal e dettando il programma di un audace movimento politico capace di rivoluzionare la società. Sono i Millennial a farsi carico del problema del cambiamento climatico. Se il Green New Deal è diventato un tema fondamentale nella sfera politica, nel mondo delle imprese sta emergendo un movimento parallelo che nei prossimi anni scuoterà le fondamenta dell'economia globale. Settori chiave dell'economia si stanno prontamente sganciando dai combustibili fossili a favore dell'energia solare ed eolica, più a buon mercato e accompagnate da nuove opportunità di business e occupazione. Nuovi studi stanno suonando l'allarme: migliaia di miliardi di dollari in combustibili fossili per i quali non esiste più un mercato potrebbero creare una bolla suscettibile di scoppiare entro il 2028, provocando il crollo della civiltà dei combustibili fossili”.
 
Jeremy Rifkin. Photo credits. Mondadori

Siamo entrati nella terza rivoluzione industriale che prevede la responsabilità pubblica e privata, soggettiva e collettiva della riduzione degli impatti ambientali, che ridefinisce la responsabilità sociale delle imprese e insieme a loro la consapevolezza dei consumatori rispetto alla scelta di beni e servizi sempre più compatibili con i bisogni di sostenibilità economica, sociale ed ambientale, che impone alle filiere produttive di adottare i principi dell’economia circolare che risparmia materia prima e redistribuisce all’interno delle filiere materie prime seconde. Se l’economia si basa sulla necessità irrinunciabile di comunicare, produrre energia e muoversi, adesso le sfide si chiamano digitalizzazione, connessione, condivisione, energie rinnovabili, mobilità, internet delle cose.  Alla base di questo un nuovo modello di società la volontà di ripensare totalmente i modelli scrivendo un nuovo patto che scommette su un futuro  zero emissioni: “Il punto di svolta è stato nel 2019 quando il costo dell’energia solare ed eolica è sceso sotto quello del gas naturale e molto sotto quello del petrolio, del carbone e del nucleare. Nel 1979 il costo fisso per produrre un watt di energia era 78 dollari, oggi è 43 centesimi. E il costo marginale è zero”.

Intervistato dal Corriere, cita l’esempio di una regione nell’Alta Francia dove erano basate le vecchie industrie del carbone, dell’acciaio e dell’auto: “Dal 2010 la mia squadra di consulenti ha iniziato a lavorare con il governo, gli imprenditori, la società, coinvolgendo migliaia di persone in assemblee per discutere i progetti. Così stanno trasformando vecchie città di minatori ammodernandole con l’energia solare ed eolica e lanciando nuove imprese. Hanno anche unito sette università e 250 scuole secondarie in un consorzio per pensare in termini di educazione digitale. Questo modello funziona perché la Terza rivoluzione industriale non è centralizzata, ma si basa su infrastrutture distribuite, aperte, trasparenti”.

E L’Italia? Su Repubblica l’economista americano definisce il nostro rischio: “Gli stranded asset sono i combustibili fossili che rimarranno nel sottosuolo a causa della caduta della domanda e dell’abbandono delle relative infrastrutture. Paesi dipendenti dai fossili come l’Italia saranno presi fra due fuochi: il crollo del prezzo delle rinnovabili da una parte e gli stranded asset fossili dall’altra. Il mercato detta legge e i governi di tutto il mondo dovranno adattarsi rapidamente se vogliono sopravvivere e prosperare”.

Jeremy Rifkin, nato a Denver nel 1943, economista, sociologo e saggista, è uno dei più brillanti pensatori del nostro tempo. Attivista del movimento pacifista statunitense negli anni sessanta e settanta, ha fondato, nel 1969, la Citizens Commission con l'intento di rendere noti i crimini di guerra commessi dagli americani durante la guerra del Vietnam. È fondatore e presidente della Foundation on Economic Trends (FOET) e presidente della Greenhouse Crisis Foundation. Consigliere molto ascoltato all’interno dell’Unione Europea e della Repubblica Popolare Cinese, Rifkin insegna alla Warthon School dell'Università di Pennsylvania il rapporto fra l'evoluzione della scienza e della tecnologia e lo sviluppo economico, l'ambiente e la cultura.
 
Jeremy Rifkin, Un Green New Deal globale. Il crollo della civiltà dei combustibili fossili entro il 2028 e l’audace piano economico per salvare la Terra, Mondadori, 2020.

Tag:  Green New DealJeremy Rifkinlavorosostenibilità

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