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La prevenzione dello spreco alimentare come scelta etica ed economica
La prevenzione dello spreco alimentare come scelta etica ed economica
di Claudia Ceccarelli
05/02/2021
Secondo Lévi-Strauss, il cibo, per essere “buono da mangiare”, deve essere prima di tutto “buono da pensare”, perché l’uomo si nutre di un cibo, ma anche della sua idea. Così come c’è un “appetito biologico”, esiste anche un “appetito simbolico” che investe il cibo di bisogni e domande diversi, ma sempre di origine sociale e culturale.
Oggi, certamente accentuate dalla crisi pandemica con il suo corollario di cause e conseguenze legate all’alterazione degli ecosistemi naturali, le domande che investono il cibo si stanno articolando in una prospettiva ampliata.
Nell’idea di “cibo buono” infatti ora convergono una domanda di benessere individuale e insieme una domanda di sostenibilità ambientale, sociale ed economica
. In altre parole, per il consumatore di oggi, soprattutto a partire dalla generazione dei Millennial, sempre di più un cibo può risultare buono se dietro al mangiarlo (e possibilmente gustarlo) c’è la consapevolezza che può aiutare a stare bene e che è stato prodotto cercando di rispettare l’ambiente, il lavoro di chi lo ha fatto, distribuito, commercializzato, garantendo il giusto prezzo per chi lo acquista e il giusto guadagno per chi lo produce.
Si potrebbe dire che oggi il cibo è investito di una nuova domanda di convivialità allargata: mangiare qualcosa che garantisce il nutrimento proprio, ma anche di altri e delle generazioni future, in una relazione di natura essenzialmente inclusiva, che forse rappresenta il lascito migliore di questi lunghi tempi di crisi.
La ridefinizione dell’idea di “cibo buono” a cui stiamo assistendo implica la ri-scoperta della qualità, come criterio fondamentale di valutazione, da privilegiare rispetto alla quantità. Una quantità che per evocare l’abbondanza, necessaria a spingere il consumo molto oltre il fabbisogno, è diventata eccesso e sovrapproduzione. In sostanza, viene prodotta una quota di beni alimentari che si sa già in partenza che sarà destinata a essere buttata via.
Secondo la FAO, la sovrapproduzione di eccedenze è la principale causa dello spreco alimentare, strutturale in un modello agroindustriale di tipo lineare, fondato su produzione - consumo - smaltimento.
A ogni incremento di fabbisogno corrisponde infatti un aumento maggiore di offerte e consumi, che innesca la crescita dello spreco in ragione del +3,2% annuo. In questo modo, circa un terzo del cibo commestibile prodotto a livello globale viene buttato via.
Una questione che investe l’intera organizzazione del modello produttivo del settore agroindustriale, che da un lato rischia di diventare uno dei maggiori responsabili dell’impoverimento e dello stravolgimento degli equilibri ambientali, mentre dall’altro consegna alla distruzione una quantità di beni alimentari che sarebbero più che sufficienti a correggere le disuguaglianze nell’accesso al cibo nella società e nelle diverse regioni del mondo.
Per guardare all’Italia, lo studio condotto nel 2019 da Green Bocconi per Metro e Banco alimentare, rivela che ogni anno nel nostro Paese sono 5,6 milioni le tonnellate di cibo prodotto in eccedenza lungo tutta la filiera agroalimentare, dalla produzione al consumo finale. Il 57% di queste eccedenze è generato dalla prima parte della filiera: produttori, distributori e operatori della ristorazione; il 43% dai consumatori finali. Alcune stime valutano lo spreco alimentare in Italia più di 10 miliardi di euro all’anno, quasi l’1% del PIL del Paese.
Nel 2019 l’Ispra, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ha pubblicato il rapporto “Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali”
, una ricerca che è stata frutto di tre anni di valutazione e analisi dei più recenti dati scientifici e informazioni della letteratura internazionale. A partire dalla definizione di spreco, descritto come “un indice di disfunzionalità dei processi alimentari che eccedono fabbisogni raccomandati e capacità ecologiche”, per arrivare a delineare “una visione d’insieme socio-ecologica che tuteli l’interdipendenza di ambiente e società, tracciando
un’economia dei limiti
che integri anche la conservazione della biodiversità”.
Lo spreco alimentare infatti non è dato soltanto dai rifiuti generati per perdita di prodotti dalla produzione al consumo. Questo è l’aspetto più immediato e più evidente. Ma altri aspetti devono essere valutati. “Vanno considerate anche altre forme di spreco, meno intuitive – ha spiegato Giulio Vulcano, ricercatore dell’Ispra, illustrando i risultati della ricerca, come le perdite nette insite nell’alimentazione di allevamenti con prodotti edibili quali frumento, mais, soia o la sovralimentazione oltre i fabbisogni, la perdita di nutrienti essenziali, gli usi non alimentari di prodotti edibili (come p.e. i biocombustibili) e le perdite prima dei raccolti.
Considerando anche sovralimentazione e allevamenti, lo spreco arriva ad almeno il 50% della produzione mondiale. A ciò si associa un’impronta ecologica che impiega un terzo delle risorse generate ogni anno. Il contributo climalterante associato a questo spreco ‘sistemico’ potrebbe essere vicino al 20% del totale
”.
E allora, quali potrebbero essere le soluzioni? La studio dell’Ispra invita a concentrare l’attenzione su due questioni centrali: la
riqualificazione produttiva
e la
prevenzione strutturale delle eccedenze
. In questa direzione, le filiere corte, regionali e biologiche, così come le produzioni locali e tipiche, risultano meno orientate allo spreco rispetto a quelle convenzionali. Analogamente i metodi di produzione agro-ecologica si stanno mostrando capaci nel breve termine di garantire più nutrienti e un miglior adattamento al mutamento climatico (il cui impatto sulla produzione agroalimentare sarà sempre più pesante); mentre nel medio termine essi assicurano una produzione simile o maggiore rispetto ai metodi intensivi, poiché riescono a rigenerare la fertilità delle risorse. Le coltivazioni convenzionali, infatti, non solo determinano più eccedenze, ma causano anche impoverimento dei suoli, vasti fenomeni di erosione o desertificazione, mettendo a rischio la qualità della vita nell’ambiente rurale, e non solo, e la sua produttività futura.
Se consideriamo che la storia dell’uomo è anche la storia dei suoi sistemi alimentari, come base e condizione di tutte le attività umane, nella giornata che ci ricorda come il contrasto allo spreco alimentare sia prima di tutto una necessità etica, e una questione di scelte, possiamo affidarci alle parole di Umberto Eco, nell’articolo
Questo nostro mondo salvato dai fagioli
, apparso sul “Corriere della sera”, il 16 maggio 1999. “Crediamo che le invenzioni e le scoperte in grado di cambiare la nostra vita siano dovute solamente a macchine complesse. Ma in questo caso, noi discendiamo dagli europei che nel decimo secolo cominciarono a mangiare fagioli. La storia dei legumi del Medioevo dovrebbe avere un significato per noi, oggi. Ci dice che
i problemi ecologici andrebbero presi sul serio. Ci dice che dovremmo consumare meno cibo, nutrendoci meglio
”.
Per concludere, poi: “Una politica dei fagioli potrebbe cambiare volto al Pianeta”. In questi giorni, ci piacerebbe, soprattutto all’Italia.
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Tag:
Giornata Mondiale di prevenzione dello spreco alimentare
Autori
Claudia Ceccarelli
Redattrice di Italia Circolare e di Memo Grandi Magazzini Culturali.
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