L'Acqua, prima di tutto

di Paolo Marcesini

27/03/2025


Angelica Pastorella è una antropologa culturale, etnologa ed etnolinguista che unisce l’amore per i viaggi e l’oriente con gli obiettivi di sostenibilità, declinata in tutte le sue dimensioni, economica, sociale e ambientale. Una lunga esperienza di viaggi e vissuto personale soprattutto in Asia hanno contribuito a sviluppare in lei la passione per la ricerca e lo studio delle tradizioni millenarie delle comunità che vivono ai confini del mondo e che hanno molto da insegnare alla resilienza dell’uomo di oggi. Angelica attualmente lavora per Kel 12 Tour Operator in qualità di sustainability project manager ed è ideatrice e a capo di Water & Beyond, un progetto di ricerca e di supporto per le comunità himalayane che si occupa di acqua ai confini del mondo, dove l’acqua non c’è più o dove ne arriva troppa. Perché parlare di acqua significa comprendere l’utilità profonda di tutto quello che è davvero necessario per vivere in armonia con il paesaggio che ci circonda. L’acqua è fondamentale per comprendere la relazione profonda tra antropologia, sociologia e resilienza, studiare l’ambiente e le popolazioni indigene in zone particolarmente vulnerabili ai cambiamenti climatici, analizzare e osservare sul campo pratiche di conoscenza indigena della sostenibilità, credenze e attività rituali, al fine di sensibilizzare e aiutare concretamente le comunità locali ad avviare soluzioni resilienti capaci di costruire il futuro.
 

Come è nato il progetto Water & Beyond, quali sono le sue finalità e i suoi obiettivi? 

“L’idea del progetto nasce durante il periodo del lockdown, ma origina dieci anni prima, dopo una lunga frequentazione dei territori Himalayani. Nel 2010, durante un viaggio in Ladakh, mi trovo coinvolta in una tragica inondazione che blocca l’intera zona provocando devastazione, centinaia di morti e migliaia di feriti. Fino al 1951 quella regione era uno dei principali snodi carovanieri lungo le vie Trans-Himalayane. Poi le trasformazioni socioeconomiche a seguito della produzione dello Stato Indiano Indipendente hanno significativamente alterato il modo in cui i ladakhi si relazionano con il proprio ambiente. La posizione geo-strategica e la riconfigurazione del luogo e delle sue attività hanno contribuito all’abbandono dell’agricoltura e dei saperi tradizionali, che includono anche la gestione dell’acqua.
La crisi idrica si traduce in inondazioni catastrofiche o nella siccità più drammatica. Per le comunità indigene questa trasformazione ha generato un danno enorme; per le loro abitazioni, per le infrastrutture che collegano tra loro i villaggi, per le attività lavorative e la vita quotidiana. Ma soprattutto ha creato nelle persone un profondo disagio psicologico. Serviva trovare nuove motivazioni e rigenerare soluzioni che erano lì, a portata di mano, e risiedevano nella memoria del passato. Mi venne così l’idea di una ricerca etnografica per indagare l’impatto del cambiamento climatico e della scarsità idrica sulle comunità Himalayane. Un’occasione unica per conoscere il nostro pianeta attraverso gli occhi e i racconti degli abitanti del Ladakh. Sappiamo che l’Antropocene, in un'epoca caratterizzata da significativi cambiamenti ambientali, non determina solo una perdita di natura, ma anche uno smarrimento culturale. Un rischio inaccettabile. Dopo aver visto la disperazione negli occhi delle donne e degli uomini di quella terra, attraverso continui dialoghi e scambi di informazioni con i membri delle comunità indigene, ho deciso di approfondire questi studi a livello antropologico con un approccio metodologico differente, prendendo in considerazione prima di tutto il punto di vista dei nativi e la loro straordinaria capacità di resilienza. Perché loro sapevano cosa fare e lo facevano da sempre. Il progetto è stato supervisionato dalla Cattedra UNESCO dell’Acqua e dal Collegio Didattico dell’Università Ca' Foscari di Venezia”.
 

In cosa consiste nel dettaglio questa capacità resiliente? 

“Lo scopro nel marzo 2022 quando, appena aperti i confini dell'India dopo il lockdown, sono tornata in Ladakh. Appena arrivata non avevo ben chiaro dove andare esattamente, finché non sono capitata nella Valle di Zanskar, Questa è una regione isolata, fuori dalle cosiddette vie della seta e per questo meno toccata dal turismo o dalla militarizzazione che purtroppo è molto presente sul territorio. Per la sua conformazione è una terra che, a causa della neve, rimane isolata dal resto del mondo per gran parte dell'anno. Nella maggior parte dei villaggi c’è una grave carenza idrica, in particolare nei mesi cruciali di aprile e maggio quando c'è poca acqua nei torrenti e tutti gli abitanti fanno fatica a innaffiare i raccolti appena piantati. A metà giugno c'è invece un eccesso d'acqua e possiamo assistere a inondazioni improvvise causate del rapido scioglimento della neve e dei ghiacciai. Entro la metà di settembre tutte le attività agricole finiscono. Il problema acqua sta peggiorando, poiché i ghiacciai del cosiddetto “Terzo Polo” stanno scomparendo a causa del surriscaldamento globale e dell'inquinamento. In questa valle, grazie a una tradizione e cultura millenaria del saper fare, l’approvvigionamento idrico avviene attingendo direttamente dai ghiacciai e non dalle sorgenti o dai fiumi come accade di solito. Vengono costruiti e alimentati dei serbatoi di ghiaccio comunemente noti come “ghiacciai artificiali” utilizzati per l’irrigazione dei campi nel periodo tra la semina e la raccolta andando a compensare la carenza idrica che si viene a creare nel periodo in cui c’è più bisogno di acqua.
I ghiacciai artificiali sono delle vere e proprie meraviglie di ingegneria, una strategia di resilienza messa in atto da poco meno di un millennio dalla popolazione nativa. E funzionano, malgrado la crisi climatica. È bene specificare che funzionano finché esistono i ghiacciai naturali, nel momento in cui questi ultimi sparissero non esisterebbero nemmeno i cosiddetti ghiacciai artificiali. Una meraviglia che merita di essere studiata, compresa e innovata. Collegato a questa pratica vi è un elaborato sistema di conoscenza che viene tramandato oralmente di generazione in generazione attraverso storie e miti, fondamentali per la comprensione dei ghiacciai a cui vengono attribuite le categorie di "ghiaccio femminile" e "ghiaccio maschile”. Ciò implica una visione dei ghiacciai come essere animati: per far crescere un ghiacciaio è necessario "sposare" un ghiacciaio femmina e uno maschio. E poi c’è la tecnologia. Nel 2014 nasce il primo Ice Stupa, pensato e realizzato dell’ingegnere Sonam Wangchuk, che immagazzina l'acqua invernale, altrimenti sprecata, sottoforma di montagne di ghiaccio che si sciolgono e alimentano le fattorie quando gli agricoltori hanno più bisogno di acqua.
 

Noi sappiamo che tra le cause principali che spingono le persone a lasciare il proprio Paese, oltre alle guerre e alla povertà, ci sono i cambiamenti climatici. Dove manca l’acqua non si può vivere.

“Direi di più. La ragione principale che spinge le popolazioni ad allontanarsi dal proprio Paese è proprio la crisi climatica che in tutto il mondo alimenta la povertà e inevitabilmente genera conflitti. Il Ladakh è una regione del nord dell'India che si colloca al confine tra il Pakistan e la Cina; una terra geopoliticamente strategica dove ci sono già state nel corso del tempo tensioni e guerre causate proprio dall'acqua. Per il nostro progetto abbiamo scelto questi luoghi perché non possiamo permettere che i nativi si trasformino in rifugiati climatici con il rischio di perdere la cultura, la percezione e il rispetto che storicamente hanno maturato per l’ambiente riuscendo, grazie a questo, a coltivare soluzioni capaci di garantire condizioni di vita decisamente migliori rispetto a quelle degli stati-nazioni in cui vivono”.
 

Quale e dove sarà il vostro prossimo progetto?

Il progetto che sto portando avanti – tramite la Kel 12 Foundation – ha l’obiettivo di costruire non solo un sistema idrico, ma anche un monastero femminile e una scuola per novizie nella Valle di Zanskar (Ladakh), in modo da poter offrire un’opportunità educativa fondamentale per le ragazze della regione, costrette a viaggi di oltre 500 chilometri per studiare. In un’area dove le scuole monastiche non ricevono supporto governativo, l’iniziativa promuove l’uso di materiali locali, energie rinnovabili e tecnologie sostenibili per affrontare le sfide climatiche. In questo modo le monache potrebbero proseguire i loro studi nella loro terra di origine e preservare la loro preziosa cultura. Il sistema indigeno di conoscenza della sostenibilità – essenziale per sopravvivere in un ambiente così estremo – verrebbe tramandato attraverso credenze ancestrali e attività rituali legate al paesaggio.
 

Che ruolo hanno avuto le donne indigene nello sviluppo di questi progetti di resilienza?

“Fondamentale. Nel Ladakh esiste una società di matrice poliandrica: sono le donne a occuparsi della cura della casa e, insieme agli uomini, dell’approvvigionamento dell’acqua e della coltivazione dei campi. Sono le donne a dover dare il consenso per il matrimonio delle loro figlie, e sono sempre loro a essere protagoniste dello sciamanesimo sempre più presente e radicato, capace di custodire un insieme di conoscenze, credenze e pratiche rituali che descrivono la cultura e la tradizione della comunità. 
Le cosmovisioni himalayane, pur essendo incorporate in uno scenario essenzialmente buddhista, rivelano scorci di matrice animista. Il paesaggio, percepito come abitato e spesso affollato da presenze diverse dagli umani, richiede un’interazione costante che va oltre i confini dell’esperienza quotidiana. Per realizzare questa negoziazione viene messo in atto, in una dinamica circolare, un intero repertorio di specifici rituali, miti e credenze, attraverso specialisti religiosi sia buddhisti tout court sia figure variamente denominate le cui caratteristiche sembrano richiamare i termini generici di sciamani, medium e oracoli. Durante la mia permanenza in Ladakh ho riscontrato un notevole incremento di sciamani. Questa proliferazione sembrerebbe il risultato di tensioni sociali che sono sorte in seguito alle diverse influenze della modernizzazione e alle conseguenze delle variazioni climatiche. Ciò che colpisce di più è che sono soprattutto le donne a diventare sciamane. Essendo più lontane dalle istituzioni politico-religiose e più vicine alle comunità, in quanto madri e mogli, le donne hanno un’esperienza diretta della vita e profonda conoscenza delle relazioni. 
In una situazione di estrema carenza idrica, aumenta “naturalmente” il numero di donne sciamane. La resilienza è donna”.
 

E le donne sono sempre di più protagoniste assolute della sostenibilità. Potrebbe essere proprio l'economia sostenibile un fattore decisivo per diminuire il gender gap  e favorire l'empowerment femminile?

“Forse la sostenibilità per trovare il suo equilibrio ha bisogno di una sana, concreta e sciamanica follia femminile”.
 

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