L'Economia Circolare non esiste

di Diego Parassole con Germano Longo

31/03/2023


“Quand’ero bambino i miei genitori traslocavano di continuo, ma sono sempre riuscito a ritrovarli”. Mi ha sempre fatto ridere la frase di Rodney Dangerfield, comico americano non così noto da queste parti. Ma parlando di traslochi, c’è poco da ridere.

Immagino che chiunque, chi più chi meno, nella vita si sia trovato di fronte almeno una volta a un cambio di indirizzo o nella necessità di svuotare un appartamento arredato di tutto punto. Beh, è solo iniziando ad aprire armadi e cassetti, scatole e cassepanche che si rende conto di quanto noi esseri umani siamo accumulatori seriali, anche chi non pensa di esserlo. Quello che segue è il racconto della curiosa vicenda vissuta la scorsa estate da un mio amico d’infanzia, che mi è sembrato così al limite del paradosso da avvicinarsi a una scenetta comica scritta a tavolino. Invece no, per niente: quello che state per leggere è tutto vero.

Quel mio amico – lo chiamiamo Paolo per non metterlo in imbarazzo – sapeva di avere davanti un lavoro immenso e faticoso, ma si teneva ben saldo il desiderio di fare la sua parte di cittadino a modo, che rispetta le regole e pensa all’ambiente, immaginando un futuro per ciò che sarebbe stato costretto a buttare, che secondo alcune regole potrebbe diventare la piccola fortuna di qualcun altro. Il principio virtuoso del ricircolo e dell’economia circolare, insomma.

Anche lui, all’inizio, ha vissuto la vaga speranza di avere in casa qualcosa di prezioso, come a volte capita. “Guardi bene, a me sembra un Picasso del periodo blu o forse lo studio di ninfea di Monet”, ha detto all’antiquario.
E lui: “L’unica cosa blu è il livido che mi farebbe mia moglie se lo comprassi”.

Così è passato a telefonare ai centri che si occupano di dare rifugio a senzatetto e persone disagiate, alcuni anche piuttosto conosciuti, a cui in teoria i mobili potrebbero far comodo. Ma la risposta era sempre uguale: “Ci mandi le foto, poi scegliamo noi cosa può portarci”. In che senso – ha chiesto Paolo – oltre a donarveli devo anche portarli? “Eh sì, finché qualcuno non ce ne regala uno, noi non abbiamo un furgone”. Ma neanche io – ripeteva lui – dovrei affittarlo. “Sì, ma lei è quello che ha i mobili da trasportare, quindi dovrebbe farlo comunque”.

Terzo passaggio obbligatorio, gli annunci degli “svuota cantine”: Paolo era sicuro almeno stavolta che trattandosi non di una stanza seminterrata piena di polvere e ragnatele d’epoca, ma di un appartamento vero, l’invito sarebbe stato assai ghiotto. In effetti lo era, ma non per lui: dopo aver fatto due calcoli a mente, per liberare l’appartamento da roba che valeva quasi zero, chiedevano cifre a tre zeri.

Ma dentro ai mobili, quasi tutti i mobili, ci sono gli abiti, i vestiti. Roba che spesso per metà va buttata, ma per l’altra metà può ancora essere utile a qualcuno. Così Paolo ha riempito valigie e borsoni e raggiunto centri che invitano chi ha abbigliamento dismesso a portarlo da loro. Beh, lì credo abbia vissuto una delle situazioni più curiose di tutta questa vicenda. Una signora, anche lei piuttosto sdegnata, ha dato un’occhiata veloce al contenuto dei borsoni poi ha sentenziato: “Ma qui ci sono anche dei cappotti, mentre fuori fa caldo”.
“Certo – le ha sussurrato lui – ma anche se non dovrei, le svelo un segreto: fra qualche mese farà freddo”. E lei: “Sì, vabbè, ma non è roba di marca”. E lui, di rimando: “Ha ragione. Le mando il camion con i piumini Moncler e le creazioni Armani. Voi scegliete con calma, e quello che non vi va vado a buttarlo in un cassonetto di via Montenapoleone”.

L’ultimo capitolo, non meno paradossale, è nato dalla necessità di dover smaltire latte di vernice e vecchi contenitori di sostanze che, se liberate nell’ambiente, possono diventare pericolose.
Per l’ennesima volta ha caricato la macchina puntando dritto verso la più vicina discarica, quei posti dove difficilmente rifiutano i rifiuti, per dirla con un giro di parole.
Beh, a lui è successo. Era agosto e Paolo ha spiegato alle persone che lavoravano lì cosa aveva nel bagagliaio. La risposta? “Non abbiamo più spazio: l’azienda addetta a smaltire le vernici è chiusa per ferie”. Sarebbe dovuto ripassare con calma verso settembre. 
Lì, mi ha confessato il mio amico, che in genere è una persona serafica, i nervi gli hanno vacillato: “Che senso? Non è che la gente smette di produrre rifiuti in base alla stagione…”. La risposta, giuro, è tanto autentica quanto incredibile: “Dia retta: faccia finta di niente, li metta in un sacco nero e li butti nei rifiuti generici”.

Questa storia non ha una morale, o meglio, forse ne avrebbe fin troppe, ma se per “circolare” si intende essere costretti a fare avanti e indietro per 20 volte prima di riuscire a disfarsi di qualcosa che non serve più, allora ci siamo, altrimenti “Houston, abbiamo un bel po’ di problemi”.
 

Tag:  economia circolarericicloriuso

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