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L'Impresa Circolare
L'Impresa Circolare
di Paolo Marcesini
24/07/2020
Prima del Covid-19, orfani talvolta felici ma sicuramente impoveriti dagli eccessi della globalizzazione, avevamo scoperto e teorizzato come l’impresa potesse e dovesse esercitare un ruolo attivo, decisivo e determinante all’interno della coesione territoriale dove opera e a favore della sua comunità.
La responsabilità sociale e il bilancio di sostenibilità erano diventati fattori competitivi decisivi per definire e valorizzare l’impresa e il suo ruolo nel mondo.
Era tornata di moda una parola antica e dimenticata come “Comunità”, pensata all’interno della coesione territoriale insieme all’innovazione, la sostenibilità, il welfare, la digitalizzazione, la qualità. Anche dal punto di vista semantico, e sicuramente non per caso, la responsabilità sociale d’impresa aveva iniziato a definire “Comunità” l’insieme degli stakeholder attivi e passivi, interni ed esterni alla sua filiera sociale e produttiva.
Oggi il paradigma sembra essere cambiato. Spero in meglio.
La Fase 2 del post Covid-19 ci consegna una mission aziendale diversa: l’impresa rappresenta la coesione territoriale, l’impresa è la comunità. Non possiamo essere comunità senza impresa, non può esserci impresa senza comunità.
Oggi sappiamo, fuori dalla teoria sociale e dalla sua definizione storica, che l’impresa deve prima di tutto essere il luogo del futuro, della visione, del progetto. E noi italiani sappiamo bene come si fa. Lontano dal forzato ed effimero presentismo degli ultimi anni, il made in Italy ha insegnato al mondo come si può disegnare una filiera produttiva di qualità partendo dal nulla, ma soprattutto ha raccontato che l’innovazione e la creatività dei suoi prodotti dipendono dalla tradizione, il saper fare, il paesaggio, la creatività, il modo di vivere e convivere delle persone che abitano il luogo dove l’impresa è nata e si è sviluppata.
Un prodotto italiano prima di tutto è italiano.
“Gli italiani sono abituati, fin dal Medioevo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. La celebre frase dello storico dell’economia Carlo Maria Cipolla racconta i fattori di successo della manifattura italiana: la bellezza e la qualità dei suoi prodotti insieme al modo di essere dei territori, i distretti e le loro comunità.
Già nelle prime settimane della pandemia le imprese hanno capito prima degli altri attori sociali ed economici, pubblici e privati, che la definizione di distanziamento sociale imposta dal pericolo di contagio del virus era sbagliata. Dovevamo distanziarci “fisicamente” per proteggerci ma avvicinarci “socialmente” per trovare la forza di ripartire insieme. Chiudendo, le imprese hanno subito iniziato a parlare la lingua della solidarietà, dell’inclusone, dell’innovazione. Chiudendo hanno capito e spiegato bene a cosa servono davvero.
Diario di bordo sul sito di Fondazione Symbola ha raccontato le storie di chi nelle imprese si è impegnato concretamente, mettendo in campo risorse e capacità, per aiutare l’Italia a contrastare l’epidemia: “Un'Italia che fa l'Italia e che testimonia la ricchezza e il valore della nostra ricerca, la capacità di collaborare e di riconvertire in tempi brevi produzioni complesse delle nostre imprese e che racconta un’Italia solidale che non lascia indietro nessuno”.
È come se nella crisi la value chain fosse diventata la creazione di un nuovo significato davvero coeso da dare alle parole mercato e sviluppo. Perché il valore oggi viene percepito, ancor prima che rappresentato, dal rispetto del tempo, dalla salvaguardia della salute pubblica, dalla lotta alle diseguaglianze, dall’equilibrio dei consumi, dalla sostenibilità ambientale e sociale.
Oggi sappiamo che i tagli alla sanità pubblica possono far chiudere un’azienda. Oggi sappiamo che le diseguaglianze sociali possono far chiudere un’azienda. Oggi sappiamo che la mancanza di diritti può far chiudere un’azienda. Oggi sappiamo che la sospensione dei trasporti pubblici può far chiudere un’azienda. Oggi sappiamo che la mancanza di guanti e mascherine può far chiudere un’azienda.
Se viene a mancare uno solo dei tasselli della nostra protezione sociale, viene a mancare tutto. Il dovere dell’impresa è quindi quello di sostenere e proteggere l’uguaglianza, la sanità pubblica, l’istruzione, i servizi sociali e il bene comune perché solo così sostiene e protegge sé stessa.
La definizione stessa di Economia Circolare è sinonimo di rinascita e rinascimento, di riuso e ripensamento, di riciclo e rispetto e soprattutto di non accettazione della “cultura dello scarto”, quando ad essere considerate “scarti” possono essere addirittura le persone.
Il suffisso “ri” vuol dire “seconda possibilità”, sapendo che non ce ne sarà una terza. L’umanità attraverso l’esasperazione del concetto di finanza e di mercato ha sottratto risorse al pianeta, lo ha impoverito, distrutto, umiliato. L’unico modo che abbiamo di costruire il futuro, di cui oggi più che mai abbiamo bisogno, consiste nel difendere il saper fare della nostra manifattura che riscopre il valore tangibile e intangibile della materia e del suo recupero.
L’Economia Circolare è la base per una definizione di sviluppo finalmente “a misura d’uomo” e non di un’economia che “misura l’uomo” solo ed esclusivamente attraverso la sua capacità o meno di consumare.
Tornano a bussare con forza alle nostre coscienze economiche e civili le parole di Adriano Olivetti: “La fabbrica non può guardare solo all'indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l'uomo, non l'uomo per la fabbrica. Occorre superare le divisioni fra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura”.
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Autori
Paolo Marcesini
Giornalista e direttore di Italia Circolare e di MEMO Grandi Magazzini Culturali, membro del Comitato scientifico di Symbola Fondazione per le...
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Iscrizione N. 167 del 02/08/2019
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Paolo Marcesini
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