La Rotta dei Brand di Alberto Improda (Mincione Edizioni) verrà presentato a Roma mercoledì 12 luglio presso Artmediamix in Via Merulana. Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo la prefazione di Paolo Marcesini, direttore di Italia Circolare e di MEMO Grandi Magazzini Culturali, che modererà l’incontro. Alberto Improda è Managing Partner dello Studio Legale Improda – Avvocati Associati. Attualmente è Presidente di Fondazione Città Italia e del Centro Studi X Route Impresa, Presidente di Impresa Italiae e membro del Board di ESG European Institute e del Consiglio di Amministrazione del gruppo Forma Mentis. Docente nei corsi Master delle Università LUISS, Università degli Studi Roma Tre e Università di Roma Tor Vergata. Su Italia Circolare, cura la rubrica Develoopments, un taccuino dedicato all’Innovazione e la Sostenibilità. Il brand è una casa. Una gran bella casa, capace di unire il saper fare delle imprese e la qualità dei loro prodotti con la comunità dove convivono clienti (e non chiamiamoli più consumatori), territori, bisogni e sostenibilità. E come tutte le case trasmette e riflette l’identità e l’ospitalità di chi le abita, i loro valori, la forza delle tradizioni che vogliono tramandare. Alberto Improda descrive il paradigma dell’Economia della Complessità per raccontare il momento e la sfida che anche i brand stanno vivendo, una complessità a cui le imprese devono necessariamente rispondere. Cita Edgar Morin: “La parola complessità esprime contemporaneamente la situazione contorta della cosa designata e l’imbarazzo di chi parla, la sua incertezza nel determinare, chiarire, definire, e, infine, la sua impossibilità a farlo”. Ma è poi lo stesso Morin che a un certo punto cita Alexis de Tocqueville, uno dei padri di quella che oggi chiamiamo democrazia definita nel giusto rapporto tra uguaglianza e libertà individuale: “Un’idea semplice, ma falsa, avrà sempre più peso nel mondo di un’idea vera, ma complessa”. Questa è la vera sfida del nostro tempo, falsità contro verità. Il brand insomma, per dirla sempre con de Tocqueville, è un simbolo di democrazia che potrà vincere la sfida della complessità solo attraverso l’esercizio ossessivo della verità. Ecco perché la sua casa deve essere trasparente, semplice ma non semplicistica, circolare e non lineare, pervasiva ma non invadente, certificata e non presunta, misurata e non solo comunicata. Deve insomma spalancare le porte alla sostenibilità definita nelle sue tre dimensioni, economica, sociale e ambientale. Il brand rinnova così la sua missione di cerniera tra il prodotto e la sua promessa e rappresenta la simbiosi capace di unire e sciogliere le contraddizioni dei modelli di transizione, la parola forse più famosa, usata e abusata di questo nostro tempo incerto. La transizione giustifica l’incertezza, assomiglia ai tre puntini di sospensione. Per avere un senso deve durare poco. Deve “trasformare” e deve farlo velocemente. C’è una frase di Margaret Atwood, consegnata alla lettura del suo capolavoro Il racconto dell’ancella che descrive bene il dilemma di questa parola sospesa: “Siete una generazione di transizione, diceva Zia Lydia. Per voi è più difficile. Sappiamo che da voi si attendono dei sacrifici. È duro subire l’oltraggio dagli uomini. Per quelle che verranno dopo, sarà più facile, perché accetteranno il loro dovere con cuore volonteroso. Non diceva: perché non avranno ricordi. Diceva: perché non vorranno cose che non possono avere”. La Atwood si riferiva alla condizione della donna. Noi oggi ci riferiamo al destino del Pianeta, all’equilibrio sempre più incerto tra produzione e consumo, al rapporto tra valori di marca e valori sociali, culturali e ambientali. Siamo noi la generazione del cambiamento obbligatorio e tutti quelli che verranno dopo di noi, se falliremo, rischieranno di non volere più cose che non potranno avere e desideri di cose che non esisteranno più. E sarà solo colpa nostra che abbiamo abbondato troppo con i puntini di sospensione… Ma in fondo il brand cos’è se non la trasmissione di un desiderio? Ci aspettano anni di incertezze, di passi in avanti e di pentimenti, di grandi accelerazioni e ripensamenti. La civiltà dei consumi deve necessariamente fare spazio alla civiltà che vince la battaglia contro ogni forma di spreco. Su questo sono ottimista. L’uomo è prima di tutto un animale produttivo che trova la sua ragion d’essere nel costruire prodotti e servizi che poi utilizzerà. Noi la chiamiamo impresa, in realtà è una vocazione, l’unica cosa che ci differenzia davvero dagli animali. Tutti dovremo imparare a fare il nostro meglio usando meno risorse e meno energia. Le imprese sono le protagoniste assolute di questa enorme e non più rinviabile trasformazione, in cui l’investimento non sarà solo economico e finanziario, ma anche umano e culturale. Siamo nati prima di tutto per produrre e non solo per consumare. E producendo si impara a cambiare. Abbiamo un grande aiuto, una mappa. Sono i 17 SDGs che definiscono gli obiettivi di sostenibilità che tutte le organizzazioni, dagli Stati alle imprese, possono e devono raggiungere. Sono gli ESG che determinano il rischio e il valore degli investimenti delle imprese, parametri non finanziari utilizzati per misurare le performance aziendali sotto il profilo ambientale (Environmental), del rispetto delle persone e delle comunità (Social) e della buona gestione e amministrazione (Governance). E abbiamo il modello di Corporate Social Responsibility (CSR) che definisce gli obiettivi di sostenibilità attraverso contorni sempre più concreti e verificabili anche attraverso l’obbligo sempre più esteso della rendicontazione non finanziaria. Ma abbiamo anche la funzione regolatoria dell’Europa attraverso il Green Deal e l’economia circolare che sta insegnando un nuovo paradigma produttivo capace di recuperare e rigenerare ogni risorsa possibile senza sprecarla. E soprattutto abbiamo la consapevolezza delle nuove generazioni che stanno chiedendo con forza un cambiamento ormai non più rinviabile. La trasparenza del brand per alimentare il desiderio deve comunicare la catena del valore generata da questa mappa. Dopo decenni di immobilismo, negli ultimi anni tutto è cambiato velocemente. Nel 2015 esce la Laudato si’ di Papa Francesco, quello che oggi viene considerato il saggio di Economia Civile più importante dal dopoguerra. Il Papa mette in guardia dalle gravi conseguenze dell’inquinamento e da quella “cultura dello scarto” che sembra trasformare la Terra, “nostra casa”, in un immenso deposito di immondizia. Nello stesso anno le Nazioni Unite presentano i Sustainable Development Goals che definisco gli obiettivi globali di sostenibilità a cui aderiscono, non senza contrasti, quasi tutti i governi del mondo e Larry Fink, CEO del fondo Blackrock, scrive agli amministratori delegati delle imprese più importanti del mondo per dire che le questioni ambientali e sociali non rappresentano più solo una questione etica, ma hanno e avranno sempre di più un chiaro impatto sui profitti. O ci sarà un capitalismo del valore definito dalla sostenibilità oppure, molto più semplicemente, non ci sarà più il capitalismo. La più importante autorità religiosa, la più importante istituzione pubblica e il più importate fondo di investimento nello stesso anno dicono la stessa cosa, con le stesse parole e nelle stesse settimane. Investire in sostenibilità diventa quindi un fattore competitivo. Il brand da quel momento non potrà più essere solo uno spettatore del cambiamento, ma uno degli attori principali della trasformazione. Il desiderio diventa valore. La strada per la sostenibilità e la ricerca affannosa di un nuovo equilibrio non sono una passeggiata, ma una strada impervia lastricata di dubbi, dilemmi, ritardi, contrasti. La sostenibilità mette in discussione tutto quello che pensavamo di sapere prima e apre all’incertezza di quello che non potremo più sapere dopo. Il brand sa che troverà il suo nuovo posto al sole solo se saprà interpretare positivamente questo passaggio. Il marchio deve trasmettere l’aderenza al cambiamento, esserne complice e ispiratore. Deve dire con forza che società vuole contribuire a costruire. Intanto il mondo è di fronte alla sua prova più difficile. Deve effettuare delle trasformazioni urgenti, necessarie e non più rinviabili. Al tempo stesso deve uscire dalla stagione drammatica della guerra e della pandemia e dalla sua coda lunga che porta ancora incertezza, paura, conflitto sociale. Ma soprattutto deve trovare la consapevolezza, le idee, le risorse e la forza per ridurre drasticamente l’impatto della crisi climatica e ambientale. Altro che transizione, dovremmo chiedere in prestito al greco un termine più decisivo come la parola “metamorfosi”. Perché dobbiamo davvero passare da un modo di esistere a un altro. Possibilmente migliore. Il brand può indicare la strada del cambiamento e offrire consumi consapevoli generati da produzioni consapevoli. Howard Schultz, l’uomo che ha costruito il marchio Starbucks unendo l’arte del caffè (da lui scoperta a Milano) al valore dell’esperienza, non ha dubbi: “In questa società in continua evoluzione, i marchi più potenti e duraturi sono costruiti col cuore. Sono reali e sostenibili. Le loro basi sono solide perché sono costruite con la forza dello spirito umano e non su una campagna pubblicitaria. Le società più durature sono quelle autentiche”. La durevolezza nel tempo di un brand viene misurata oggi solo dalla sua capacità di investire in sostenibilità. Se lo fa verrà giudicato per il suo ruolo di protagonista nella costruzione di un futuro migliore e verrà premiato dal mercato. Se non lo farà, sarà destinato a sparire. Eccola la nuda verità, messa di fronte al mondo che sta cambiando. Parlare di “cambiamenti” rischia però di restituire un’immagine approssimativa e neutrale di quanto sta avvenendo. Le transizioni che stiamo vivendo mettono in crisi i vecchi sistemi a cui eravamo abituati e che dimostrano oggi tutta la loro drammatica inadeguatezza a gestire le diseguaglianze, la crisi climatiche, la rivoluzione digitale. Non funzionavano prima, non possono funzionare adesso. Perché le grandi transizioni in corso sono definitive, non prevedono passi indietro, possono aprire a modelli gestionali e di governance positivi ma per avere successo hanno bisogno di grandi e profonde trasformazioni. E quando parliamo di transizioni in cerca di trasformazioni certifichiamo il passaggio da una economia lineare a un’economia circolare, in altre parole da un modello produttivo statico a uno dinamico che ridefinisce bisogni, opportunità e modelli di partecipazione e condivisione all’interno del processo di globalizzazione. Ma soprattutto modificano il concetto stesso di relazione tra i soggetti coinvolti. Per questo le “transizioni” non posso restare sospese a lungo. Perché se cambia la relazione cambiano anche i ruoli. I clienti non sono più solo clienti, le aziende non sono più solo aziende, il mercato non è più solo il mercato e persino la concorrenza non è più solo concorrenza. E naturalmente, il brand non è più solo un brand, ma un vaso comunicante, un punto di partenza e di arrivo, la risposta a tutti i nostri desideri. Si chiama nuova economia delle relazioni. Dove è la parola “economia” a rappresentare la suggestione più importante. Molti marchi oggi (dalla moda al food system) si legano sempre di più al proprio territorio. Questa nuova concezione di luogo produttivo va di pari passo con l’aumento della percezione del valore delle comunità che lo abita. Il “community capitalism”, indica il punto di partenza per una ridefinizione complessa e più autentica delle catene del valore di ogni singolo prodotto. Il Covid ha dato una dura lezione alle imprese che durante la pandemia, costrette a chiudere in poche ore, hanno finalmente capito la forza della comunità. Oggi sanno che in futuro potranno affrontare le prossime crisi che inevitabilmente arriveranno solo attraverso un vero processo di coesione con i bisogni del proprio territorio. Più sono forti i territori più saranno resilienti le imprese. Pensiamo a quello che è successo ai punti di vendita dei supermercati nelle settimane più buie del lockdown. Erano le uniche insegne accese, un simbolo di fiducia, speranza e normalità. Quelle insegne sempre aperte sono diventate un presidio di sicurezza e un luogo di educazione per la prevenzione dal contagio. Dopo quei giorni, i punti di vendita all’interno delle città, i quartieri, le periferie, i piccoli centri si stanno trasformando in hub di prossimità che contribuiscono a determinare la base della coesione sociale di un territorio. Sono brand le insegne, e sono brand le firme di tutti i prodotti a marchio che portiamo nelle nostre case quando facciamo la spesa. Perché in fondo il brand cos’è se non la trasmissione di un desiderio? E il grande desiderio di cui tutti abbiamo bisogno si chiama Sostenibilità.
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