#VersoUnTurismoCircolare / Il Valore

di Federico Massimo Ceschin

09/10/2024


Nel concederci un tempo per riflettere sull’opportunità di virare verso un possibile turismo circolare, vale la pena condividere il quadro generale e tentare qualche speculazione sul valore del turismo oggi.

La più recente edizione del Barometro mondiale del turismo pubblicata dall’UN Tourism (in precedenza UNWTO) ha offerto un’ampia panoramica delle prestazioni del settore: con circa 1,3 miliardi di arrivi internazionali il 2023 si è chiuso con l’88% dei livelli raggiunti pre-pandemia. Secondo le stime, l’Europa è amata soprattutto dagli europei, che costituiscono oltre l’80% dell’intero flusso di visitatori; le entrate del turismo internazionale hanno raggiunto 1,4 trilioni di dollari (erano 1,5 trilioni nel 2019); i ricavi totali delle esportazioni derivanti dal turismo (compreso il trasporto passeggeri) sono stimati ammontare 1,6 trilioni di dollari (1,7 trilioni nel 2019); il contributo economico complessivo del turismo è di 3,3 trilioni di dollari, pari al 3% del PIL totale.

Ciò conferma il turismo come terzo settore economico a livello di Unione europea: anche contabilizzando i dati in base alla definizione più stretta (solo fornitori tradizionali di viaggi e di servizi turistici), conta 2,3 milioni di imprese – principalmente piccole e medie (PMI) – che danno lavoro a circa 12,3 milioni di persone.

Per fare un passo avanti, ritengo di interesse verificare che circa la metà della spesa turistica è destinata all’alloggio e alla ristorazione. L’Italia è prima in Europa per numero di strutture ricettive, a cui bisogna aggiungere gli alloggi privati: il boom degli affitti a breve termine ha modificato l’offerta ricettiva (e, di fatto lo stile di vita degli italiani). Lo ha fatto al di fuori di qualsiasi norma che regolasse questa attività, distinguendo tra attività occasionale e attività imprenditoriale – dove la seconda è stata svolta, e continua a esserlo, come se si trattasse di mera “condivisone” di alloggi. Uno degli effetti documentati trova Roma – che nel 2023 dichiara di aver registrato il record di presenze e l’89,5 dei flussi dell’intero Lazio – incapace di rilevare il 30% dei flussi turistici: un dato che, semplificando, si traduce in un ammanco di 45 milioni di euro l’anno di tassa di soggiorno non versata nelle casse del Comune, a fronte dell’aumento degli utenti dei servizi pubblici locali e un guadagno – privato – medio mensile di duemila euro per appartamento. Traslando il dato a livello nazionale, c’è da chiedersi come sia possibile che l’Italia attenda una norma sugli affitti brevi almeno dal 2017. Eppure i settori portanti dell’economia turistica, alloggio e ristorazione, sono gli stessi che, insieme al commercio e al trasporti, generano il 40% dell’economia sommersa in Italia, che vale il 12% del PIL, ovvero paradossalmente proprio quanto il turismo e il suo indotto legale!

Il paradosso di questo modello è che la “turistificazione” delle identità culturali, la messa a valore delle loro caratteristiche di unicità e autenticità, finisce per cancellarle attraverso il meccanismo di appropriazione, coprendo sotto una coltre omologatrice i segni distintivi su cui si fonda. Ovvero fondare la ricchezza del Paese sulla rendita di posizione e su modelli novecenteschi di produzione e consumo di massa, significa depauperare i motivi stessi per cui l’Italia continua a rimanere saldamente in vetta alle preferenze di viaggio. In altre parole, più esplicite, potremmo dire che stiamo minando il terreno su cui cammineranno gli italiani di domani. Con territori e comunità esclusi dal controllo delle risorse, su cui si finirà per scaricare sempre più i costi ambientali e sociali, replicando modelli di sviluppo ancora lineari e pertanto insostenibili. Con il dominio nell’economia delle piattaforme digitali che trasferiscono gli utili nei paradisi fiscali. Con i lavoratori del settore sempre più precari, intermittenti, stagionali, sottopagati, magari in nero, volontari, invisibili e poveri.

Un ulteriore sguardo oltre le cartoline illustrate e le campagne di promozione delle destinazioni può aiutare la riflessione ad assumere un tono meno grave: un terzo dell’intera spesa turistica è rappresentato dal cibo. Attenzione: non si intende dire destinato alla tavola per consumare pasti nei locali, ma anche per cibo di strada o souvenir acquistati in mercati, feste e sagre di Paese, per un impatto superiore a 30 miliardi di euro nel 2023 (dati Coldiretti). Il cibo si conferma il vero valore aggiunto della vacanza in Italia, che può contare su 5.450 specialità ottenute secondo regole tradizionali protratte nel tempo per almeno 25 anni, censite dalle Regioni, con 320 specialità DOP/IGP, 415 vini DOC/DOCG e la leadership nel settore biologico con 86mila aziende. Motivo per il quale l’Italia si conferma leader nel turismo rurale, con quasi 14 milioni di presenze negli oltre 25mila agriturismi diffusi in tutto il territorio nazionale (dati European Travel Commission), dove il 24% delle aziende propone attività di degustazione, il 53% attività sportive ricreative e culturali: sport 28%, escursionismo 25%, attività didattiche e corsi 15%, mountain bike 14% e attività con il cavallo 11% (dati Istat).

Questo per dire che il turismo rurale può – a buona ragione – essere considerato il terzo pilastro del turismo italiano, in grado di affiancare i segmenti del balneare (che produce elevata stagionalità) e delle città d’arte (che produce overcrowding e overtourism). Si tratta di una enorme opportunità per oltre 6mila Comuni italiani nelle aree interne e rurali, dove sono insediati oltre 16mila agriturismi che complessivamente rappresentano il 61% dei posti letto nazionali, equivalenti al 4.2% delle presenze di tutto il turismo italiano (era il 3.2% nel 2019) e al 10.1% delle presenze dell’intero comparto extra-alberghiero (dati Istat).

Come cerco di affermare da tempo, l’economia – l’intera economia – è governata dalla domanda, non dall’offerta sulla quale continuano a insistere governanti e decisori pubblici. Da questo punto di vista, sarà bene osservare che la maggior parte dei turisti (58%, dati Coldiretti) ha viaggiato nel 2023 avendo come motivazione principale l’enogastronomia, per un valore superiore di 37 punti percentuali rispetto al 2016! Abbastanza per dire che qualcosa sta cambiando negli orientamenti di consumo e di viaggio, non vi sembra?

Ancora pochi dati: la vendita di prodotti tipici ai turisti stranieri vale 900 milioni di euro (più 200 milioni dagli italiani in vacanza): ogni turista straniero crea valore per 2.48 euro al giorno all’agricoltura e 5.59 euro all’industria alimentare (dati Centro Studi Confagricoltura). Ed è possibile stimare che, per ogni 100 euro destinati all’acquisto di servizi e prodotti agrituristici (vitto, alloggio, attività organizzate in azienda, prodotti aziendali, escursioni, corsi ed esperienze), gli ospiti ne investano altri 40 nel territorio circostante (dati ISMEA nell’ambito del Programma Rete Rurale Nazionale).

No, non è ancora abbastanza per dire che il turismo sta diventando circolare. Ma è abbastanza per consentirci di comprendere come promuovere l’innovazione di processo e di prodotto attraverso l’integrazione diagonale della catena del valore e delle filiere produttive sia la strategia di maggior valore per il sistema Italia: sono necessari strumenti e politiche in grado di integrare i processi tra realtà che non fanno parte – o non si sentono parte – della filiera turistica ma che operano in un settore connesso (non solo l’agricoltura e l’enogastronomia, ma anche l’artigianato e il Made in Italy).

Un passo indietro: Joseph Pine II e James H. Gilmore1, considerati i padri dell’economia dell’esperienza, hanno indicato con chiarezza il metodo da perseguire: ripercorrendo la storia economica dell’umanità, hanno evidenziato come la base del valore si sia progressivamente spostata dall’estrazione delle materie prime alla produzione di beni e poi in servizi, ognuno dei quali produce un aumento di valore:

  • commodity: materiali fungibili estratti dal mondo naturale;

  • beni: manufatti tangibili standardizzati e immagazzinabili;

  • servizi: attività intangibili prestate a un determinato cliente;

  • esperienze: eventi memorabili, che coinvolgono sul piano personale.


Superati i tempi in cui le politiche di prezzo potevano concentrarsi sul costo delle materie prime, così come il tempo della competitività retta da metodi di produzione e servizi che possono essere facilmente riproposti altrove, soltanto lo sviluppo di esperienze uniche e appaganti è in grado di realizzare un reale valore aggiunto. Ma inscenare esperienze non significa soltanto intrattenere (entertainment) ma coinvolgere (involvement) ed educare (edutainment):

  • esperienze di intrattenimento: le persone assorbono passivamente gli stimoli attraverso i sensi;

  • esperienze estetichegli individui si immergono fisicamente nell’evento ma restano passivi;

  • esperienze educativel’ospite assorbe luoghi, situazioni ed eventi partecipando attivamente con i propri sensi alla costruzione del presente;

  • esperienze di evasioneil partecipante è attivo in un ambiente di immersione (l’individuo diviene attore, capace di interagire / influire sull’esito della performance).


Ne consegue che esperienze artefatte, ideate e realizzate da estranei in luoghi ancora ignoti per il visitatore, immessi nel mercato di massa, non fanno che generare una percezione di poca autenticità e, di conseguenza, di frustrazione e sfiducia. Per questo motivo, i visitatori premiano le attività, i prodotti e i servizi che hanno un valore percepito superiore alle proprie aspettative. E i territori che comprendono questa dinamica, orientano le proprie azioni all’ascolto dei visitatori, per posizionarsi e diventare competitive nel tempo. La catena del valore, dunque, deve sempre più affidarsi a marchi d’area resi autorevoli da un approccio dialogico e quanto più sincero con i consumatori, da realizzare incoraggiando e sostenendo la creazione di relazioni e la condivisione di informazioni dirette tra i consumatori, ma anche tra consumatori e produttori. Il turismo, da questo punto di vista, può apprendere dall’agricoltura: si tratta di realizzare interazioni autentiche, basate non solo sul coinvolgimento temporaneo ma su un’effettiva condivisione di tensioni valoriali e significati sociali.

Uno dei fattori di cambiamento più visibili è provocato da un altro straordinario paradosso del turismo, individuato dal ricercatore Dean MacCannell, docente di architettura del paesaggio all’Università della California: «L’autenticità è visibile al turista solo se segnata da un marchio, se ostentata o se messa in scena». Ed è questa “messa in scena” a conferire ai luoghi la loro inconfondibile teatralità, per cui ognuno, in fondo, è chiamato a recitare se stesso, riproponendosi ogni giorno e producendo situazioni che aggravano e mortificano i residenti. Si assuma per definito che nemmeno gli addetti del comparto sono indenni da tale condizione perché, pur essendo fornitori che traggono vantaggi, il loro destino è diventare parte del prodotto consumato.

È molto chiaro, infatti, che la ricerca di proporre “turismo esperienziale” spinga a ricorrere alla ricerca dell’autentica “italianità”, in cui i residenti sono trattati alla stregua di “prodotti tipici”. È quindi del tutto naturale che la “messa in scena” sia guardata con disgusto, quando non con totale ripudio, anche se la teatralizzazione delle esperienze non dev’essere assunta come una dannazione in senso assoluto: come dimostra lo studioso Jonathan Gottschall2: «la selezione biologica e culturale del tempo presente si basa in gran parte sulla capacità di produrre e di consumare storie».

Di fatto, le scelte di viaggio e i comportamenti di consumo sono al servizio della costruzione della propria sceneggiatura di vita: più la società è in grado di affrancarsi dai bisogni primari, più tempo rimane a disposizione nei mondi narrativi da costruire, dentro ai quali si investono le migliori energie. A maggior ragione, nel tempo dedicato allo svago, alla ricreazione e al viaggio.

A chi ritiene che l’Italia non necessiti di produrre esperienze “artificiali”, occorrerebbe ricordare come sia altrettanto vero che non possa e non debba rimanere un fondale per foto ricordo: deve trovare le chiavi per accendere l’interesse di chi investe nel turismo perché ne comprende il valore e il ritorno dell’investimento realizzato in capitale umano, anzitutto nelle competenze e nelle professioni, nonché nelle relazioni e nelle connessioni che aumentano la qualità della vita e dell’esistenza anche in questo tempo di incertezze, di nuova scarsità e di razionalizzazione della spesa. Per riuscire in questo obiettivo, vanno compiute scelte capaci di incidere sulle motivazioni e sulle scelte di consumo culturale dei flussi turistici, combattendo la rendita di posizione, contrastando il fenomeno dell’overtourism, ed elevando la permanenza media e la capacità di spesa attraverso decisi investimenti in innovazione dei processi e qualità.
 

1 Pine B.J. II e Gilmore J.H., “L’economia delle esperienze” Editore Etas, 2015, ISBN 9788858677049

2 Gottschallil J., “Il lato oscuro delle storie. Come lo storytelling cementa le società e talvolta le distrugge”, edizioni Bollati Boringhieri, Torino 2022
 

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