#VersoUnTurismoCircolare / La rendita di posizione

di Federico Massimo Ceschin

18/09/2024


In un periodo in cui la politica, i media e l’opinione pubblica appaiono improvvisamente e imprevedibilmente interessati ai fenomeni di overtourism, che riconducono al tema più generale della gestione manageriale delle destinazioni turistiche, appare opportuno partire dalla condivisione di alcune riflessioni attorno alla rendita di posizione. Un punto di partenza doveroso per chi, come me, è nato e cresciuto immerso nella laguna di Venezia, che ormai da decenni è la destinazione che mostra maggiormente i limiti del turismo di massa.

Venezia è il paradigma dell’overtourism. Dal 1951, quando aveva raggiunto quota 174.808 residenti, la città storica di Venezia ha perso il 70% della popolazione, attestandosi ai soli 49.172 abitanti attuali. Nel 2023, persi altri 563 abitanti: una persona e mezza ha abbandonato Venezia ogni giorno, domeniche e festività comprese. Un numero impressionante, che aumenta a 824 se si considerano anche le isole della laguna, Giudecca, Lido e Pellestrina, facendo sempre più assomigliare Venezia ad un parco giochi tematico, dove la mattina arrivano gli operatori per aprire le attività che servono per i visitatori, per poi andarsene la sera.

Questo incipit consente di illustrare come la relazione tra le opportunità dell’industria turistica e i limiti del suo sviluppo debba in qualche misura condurre a considerare il turismo come un atto di consumo: il visitatore genera una domanda articolata di beni e servizi che richiede al paese ospitante un aumento di produzione di specifici beni e servizi, attorno agli attrattori. È interessante osservare come lo scrivesse per primo un economista italiano del Settecento, Gian Rinaldo Carli1, che già richiamava l’attenzione sull’importanza del turismo nei confronti della ricchezza nazionale, potendo compensare un disavanzo della bilancia del commercio: «Il solo articolo dei forestieri che passano, si trattengono, comprano e spendono, è un articolo di somma importanza».

È davvero interessante rileggere un breve estratto di un saggio apparso nel 1940 sul “Giornale degli economisti e annali di economia”: «I rapporti fra il turista e il paese visitato assumono oggi un carattere di particolare complessità. […] In prima approssimazione si può ritenere che beni e servigi turistici vengono offerti da imprenditori che ritraggono le materie prime o alimentari dalle proprie terre, non si avvalgono di capitali o prestazioni di opera altrui. In tale ipotesi tutta la spesa del turista va a favore di questi singoli offerenti di beni e servigi. In successive approssimazioni si deve tener conto della divisione del lavoro, operatasi con l’intensificarsi del traffico turistico, onde all’unico imprenditore della primitiva industria ricettiva s’è venuto sostituendo l’albergatore che si rifornisce di beni da agricoltori, industriali e commercianti, chiede in mutuo capitali e assume prestatori d’opera. Si giunge così fino ai grandi alberghi, gestiti da società anonime, alle compagnie e agenzie di viaggio».

Nel corso del Novecento, si è reso sempre più evidente che il movimento turistico esercita riflessi sulla nozione stessa di bene economico: «Certi beni, per effetto del movimento turistico, acquistano un valore che prima non avevano, ovvero aumentano di valore». […] «Tuttavia il loro valore si traduce in un soprappiù, rispetto al costo di produzione degli altri beni e servigi offerti al turista. Questo soprappiù è appunto una rendita, che, avendo origine dal traffico di persone provenienti da altri luoghi, può chiamarsi rendita turistica. Essa si concreta nella differenza tra il prezzo di offerta del servizio turistico e il costo marginale di produzione del medesimo2». Più approfonditamente: «L’opera dell’uomo può contribuire in molte guise ad incrementare la corrente turistica, fornendo una data località di tutti quegli agi ed abbellimenti che valgono a rendere più piacevole il soggiorno. Essa completa le naturali attrattive, provvedendo a soddisfare gli svariati bisogni del turista. Sorgono pertanto alberghi, luoghi di divertimento, parchi, strade e ferrovie panoramiche, ecc., talché non riesce più possibile distinguere le originarie qualità e prerogative di una data località da quelle risultanti dall’opera modificatrice dell’uomo, che nel suolo e in costruzioni ha investito durevolmente i capitali per abbellire o apprestare i servigi necessari. La rendita turistica può ritenersi pertanto una rendita composta3».

Per molti aspetti sorprendente si presenta la rilettura di Giovanni De Maria4, tra gli economisti italiani di maggiore rilievo nel periodo centrale del Novecento, che scrive: «La rendita turistica presenta affinità con la rendita di posizione ogni qualvolta la scelta di una località come meta di turismo è fatta in vista della sua peculiare ubicazione. Ciò avviene ad esempio per la villeggiatura, esigenza fisiologica oggi largamente sentita: secondo i gusti e le necessità individuali si preferisce, per la soddisfazione del bisogno di riposo e svago, il mare, o i monti, o la collina, ecc. Vi sono poi altri elementi economici e insieme psicologici che concorrono a determinare le preferenze: il prezzo dei beni e dei servizi praticati nelle diverse località, la simpatia e le mode prevalenti. L’organizzazione e la propaganda tendono a dare un peso sempre più notevole a questi ultimi elementi: se in un dato tempo è di moda villeggiare in montagna e praticarvi lo sport di sciare, molti sceglieranno, per forza d’imitazione, una località montana». Nelle sue conclusioni si trova un elemento davvero rilevante: «L’ipotesi di monopolio si distingue da quella di concorrenza per la irriproducibilità della offerta, ossia per la sua staticità qualunque sia il variare dei prezzi. Una data località turistica può trovarsi, per le sue attrattive (climatiche, igieniche, religiose, culturali, artistiche, ecc.) in una posizione di monopolio o di quasi-monopolio». È questo il caso dell’Italia.

L’idea che l’Italia possa “vivere di turismo” continua a esercitare un certo fascino. Da un lato chi sostiene l’idea che sia il “petrolio d’Italia” (non ultimo Il Sole 24 Ore, che ancora nel gennaio 2020 titolava così). Dall’altra le voci di chi dice no, perché il turismo sarebbe un settore a basso valore aggiunto, a bassa produttività, a bassa innovazione, a bassi investimenti e a bassi salari. Nel mezzo chi – come gli autori – ritiene che il turismo possa avere un ruolo centrale nell’economia italiana a condizione di rivedere l’impianto quasi monopolista delle sue politiche di destinazione e di convertire la spesa in promozione in investimenti per ricerche, studi e analisi finalizzate all’innovazione dei prodotti turistici.

Il mantra del turismo “petrolio d’Italia” è espressione di una logica che cerca nel rimedio semplice la soluzione immediata a problemi complessi. Poco prima dell’emergenza Covid, sul Corriere della Sera si poteva leggere: «Analizzando la spesa complessiva dei turisti in Italia emerge una criticità legata alla elevata concentrazione spaziale del valore economico. La Lombardia rappresenta la regione che attira il 13,6% (pari a circa 11,0 miliardi di euro) della spesa complessiva effettuata dai turisti non residenti in Italia e di quelli residenti in altre regioni; seguono: il Lazio con l’11,4% (9,2 miliardi), la Toscana con il 11,3% (9,1 miliardi), il Veneto con il 11,3% (8,3 miliardi) e l’Emilia-Romagna con il 10,2% (6,1 miliardi). Nel complesso in queste cinque regioni si concentra oltre la metà (54,3%), della spesa di provenienza esterna alle regioni stesse. Mezzogiorno assente».

Si è dunque trattato di uno sviluppo talmente accentrato e selettivo che, proprio alla vigilia della pandemia, ha bloccato il vorticoso flusso di merci e persone che attraversavano il globo, prima che si cominciasse, anche in Italia, a parlare di overtourism. Il fenomeno della cosiddetta turistificazione delle città non è però un fatto casuale: da decenni i luoghi dove il turismo è considerata un’attività fondamentale, le città vengono pensate, progettate, modificate per il turismo, a discapito di tutte le altre funzioni urbane, a partire da quella residenziale. Lo sfruttamento intensivo delle risorse a opera del turismo, non a caso descritto come attività estrattiva, desertifica il territorio, lo rende invivibile, lo uccide. Il troppo turismo modifica l’ecosistema urbano e naturale dei luoghi, trasforma il tessuto sociale, economico e culturale dei centri storici, danneggia l’ambiente, consuma e cancella le stesse caratteristiche alla base dell’attrattività dei luoghi.

Tecnicamente le destinazioni turistiche hanno una certa capacità di carico, ecceduta la quale il turismo diventa insostenibile. Infatti il turismo genera anche costi economici, sociali e ambientali, a fronte di benefici che spesso diminuiscono con la maturazione delle destinazioni, esaurendo il proprio ciclo di vita se il turismo non è gestito in un’ottica di lungo periodo o se non si riduce a fare leva esclusiva sulla rendita di posizione.

Per preservare un equilibrio tra le funzioni urbane bisogna necessariamente limitare il turismo. Ma gli effetti positivi della spesa turistica si registrano perlopiù in territori con livelli iniziali bassi di valore aggiunto pro capite e ridotti tassi di occupazione. Nelle località più turistiche, invece, «gli effetti del turismo diminuiscono o diventano negativi a causa dei costi della congestione o del possibile affollamento di altri settori, quando l’industria turistica si espande al punto di incidere in modo significativo sui prezzi e sui salari relativi locali», si legge nel focus della Banca d’Italia “Turismo e crescita nelle province italiane”.

Quando il turismo non è gestito, o lo è soltanto in un’ottica di massimizzazione dei profitti nel breve termine, alla lunga i costi, socializzati, finiscono per superare i benefici. Non basta dunque citare i numeri dei visitatori in aumento per dire che l’economia va bene. Bisogna provare a capire che cosa questo aumento produce. E quali economie occorra privilegiare per disegnare un futuro più equo e più sostenibile.
 

1 Carli G.R., “Breve ragionamento sopra i bilanci economici delle nazioni”, Torino, Tipografia economica, 1852, pag. 220

2 De Stefani A., “I profitti dell’ospitalità“, in “Rivista degli alberghi” del 10 agosto 1927

3 Troisi M., “Nozione economica di turismo” in «Annali dell’Istituto di statistica», voi. XVII. Università di Bari, 1940

4 Demaria, G., “Studi sulla attività dell’imprenditore moderno”, in “Rivista internazionale di scienze sociali”
 

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